Idee, Parole, Linguaggio
Judith Revel
This article was originally published on Infoxoa
E' il passaggio della vita nel linguaggio che costituisce le idee
(Gilles Deleuze, Critica e clinica)
Ogni epoca si apre e si chiude su delle parole che ne determinano la tonalità e la consistenza prima di provocarne il tramonto. Gli ultimi cinquant'anni hanno ruotato interamente intorno a due vocaboli declinati all'infinito: umanità e comune. Dal concetto giuridico-filosofico di "crimine contro l'umanità" alle recenti pretese di guerra imperiale di macherarsi sotto il blando appellativo di 'guerra umanitaria', abbiamo costruito la nostra strana appartenenza al genere umano e il paradosso potrebbe sembrare divertente se non facesse venire i brividi. Non meno paradossale è stato il destino di comune, dal "comunismo" (vocabolo per altro usato ormai esclusivamente sotto la categoria "fine del...") alla "comunità europea", dall'esperienza di vita delle "comuni" al mondo della "comunicazione globale". Ma il gioco linguistico delle famiglie lessicali non si ferma così presto: "comunicazione", a sua volta, può essere declinato, aperto, svuotato; seconda scatola cinese dentro la prima, la parola riassume allo stesso tempo il peggio degli anni '80 (chi non ha sfogliato il programma di un seminario per giovani managers rampanti- "come comunicare meglio con il cliente", "comunicazione e marketing", "saper comunicare per meglio vincere" - non sa cos'è la nausea) e la svolta informatica degli ultimi anni del millennio: dal broker in borsa al pazzo di internet, dal mondo kitsch dello yuppismo italiano al mondo cyber della rivoluzione virtuale, i decenni e le tribù sembrano quasi ritrovarvi una strana unità. Ed è forse per evitare che quella unità diventi tristemente reale, trasformando gli anni 90 in una appendice degli anni 80, che sembra più che mai necessario definire cosa si intende esattamente oggi per comunicazione. Ovviamente non si tratta di ristabilire l'ortodossia di un uso della lingua ma di capire al contrario in quale misura la comunicazione ha forse trovato negli ultimi dieci anni un uso diverso, un uso che non si trovava nei vocabolari né tantomeno sulle pagine "società" dei settimanali in cerca di novità mediatico- modaiole; un uso nuovo, inventato, coniato da pratiche (non solo linguistiche), messo alla prova in alcune situazioni di antagonismo: un uso creativo e politico capace di fare di quella semplice parola, rovesciandola, una piccola " macchina da guerra" (diceva il buon Gilles Deleuze) all'uso di nuovi soggetti. Ora, quella realtà va senz'altro spiegata e recuperata e rivendicata - non si abbandonano le macchine da guerra lungo le strade -; ma va anche capito che il recupero della categoria di "comunicazione" sotto alcune forme di pratica politica non è così facile: ad uso nuovo, problemi nuovi. Partiamo da due micro-eventi: due ricordi personali separati da alcuni anni. Il primo ricordo è quello della Pantera, la pantera vista da Parigi, dove vivevo ancora. Mi ricordo che quasi subito, cercando di capire ciò che succedeva con la frustrazione di chi sta troppo lontano, l'abbiamo ribattezzata "la guerra dei fax", pensando che al di là della gioia di veder riprendere il movimento studentesco in Italia, stava accadendo qualcosa che ci lasciva a bocca aperta: oltre la realtà delle occupazioni, l'invenzione di una nuova tecnica di lotta che passava attraverso il controllo della comunicazione e la gestione politica della parola, contro un ordine del discorso che era appartenuto finora solo al potere. Il secondo ricordo è quello dei primi collettivi parigini di sans- papiers e di immigrati senza casa: avendo occupato successivamente alcune case sfitte, una chiesa, la palestra di una scuola, si erano scelti un portavoce e rilasciavano le loro prime dichiarazioni. E per una volta, quel portavoce non era né un sindacalista, né un rappresentante di ONG, né un prete, né un politico di mestiere: essendo il collettivo africano aveva scelto giustamente uno dei suoi membi per parlare in TV. Mi ricordo di un africano sorridente e pieno di fermezza, davanti ai microfoni dei giornalisti, che spiegava la situazione e le rivendicazioni del suo collettivo. L'africano sapeva il francese per modo di dire. Non si capiva niente. Il giornalista era sull'orlo di una crisi di nervi, gli spettatori del telegiornale avranno probabilmente cambiato canale dopo un pò - intanto il portavoce africano preciso, metodico e imperturbabile, continuava ad esporre le difficoltà del collettivo in una lingua incomprensibile. Mi ricordo la risata formidabile provacata da quella scena in TV: risata di gioia - finalmente, hanno capito che la parola è uno strumento di potere: se la stanno riprendendo - , ma anche risata di smarrimento: e adesso che non si capisce più niente, che si fa? e adesso che non si comunica più niente, che succederà? comunicazione problema non semplice. Il discorso può essere un monologo, la comunicazione no. Il discorso non solo può essere un monologo ma, nella misura in cui è fondamentalmente uno strumento di potere che organizza il reale, ha interesse ad esserlo. L'ordine discorsivo in effetti, non ha bisogno di nessuna interlocuzione, gli basta ripetere all'infinito le stesse operazioni- identificazione, nominazione, classificazione, localizzazione - per funzionare: nel grande regno dei dispositivi normativi il discorso è quell'uso del linguaggio che può fare a meno della categoria di soggetto e trasforma i residui di soggettività incontrati qua e là in oggetti del suo sapere categorico: tu non sei una persona, sei delinquante, sei pazzo, sei malato, sei emarginato, sei irrecuperabile, sei cattivo, sei pericoloso; a me non interessa lasciarti parlare per capire chi sei, sono io che ti dico cosa sei. Nell'ordine del discorso non si parla: si denomina. In quel senso la famosa 'guerra dei fax' della Pantera era veramente notevole. Non più discorso ma parola viva, l'informazione non aveva soltanto una funzione strategica (far saper in tempo reale quello che accade) ma una funzione dell'esistenza politica: si usciva dall'ordine discorsivo, dal monologo di un potere che pretende di parlare in nome di tutti, si rientrava finalmente di nuovo nel gesto linguistico e politico. Le parole sono degli atti solo se riescono a determinare soggettività. Il discorso usa delle categorie per oggettivare i soggetti, per renderli oggetti; resistere significa uscire dal discorso ed entrare nella parola. Questa è comunicazione. Ma resistere implica anche che quell'esodo dal discorso, quel recupero della soggettività, possa creare una nuova dimensione del comune, un essere - insieme sempre aperto, sempre in divenire. Il portavoce africano chiudeva quell'apertura: bloccava la comunicazione su una comunità di fatto, su una realtà precostituita, impediva l'aggregazione, l'integrazione, l'interazione. Impediva che quei soggetti di cui era rappresentante diventassero delle soggettività: rendeva la realtà statica. La posta in gioco, per noi che siamo fuori dal discorso e dentro la parola, fuori dalle categorie e dentro gli atti linguistici, per noi che ci rifiutiamo di essere ridotti a degli oggetti e rivendichiamo il potere di produrci come soggetti, è forse questa: in quale misura l'esodo da un mondo che non riconosciamo come il nostro può essere non solo resistenza ma produzione? In quale misura il rifiuto e la critica possono anche essere momenti di invenzione per tutti? Come parlare una lingua diversa e continuare ad essere capiti? questa è "comunicazione" - ma la si potrebbe chiamare politica, la si potrebbe chiamare vita.