L'ossessione del fascismo identitario
Franco Berardi Bifo
Potere operaio si presentò esplicitamente, e anche provocatoriamente come un movimento che aveva rotto i ponti con la storia del socialismo realizzato. Altrettanto decisamente rifiutò di identificarsi con la tradizione dell'antifascismo.
Abbiamo visto che nella storia politica del gruppo, dopo il Congresso di Firenze e la svolta leninista, i linguaggi e le metodologie della tradizione terzinternazionalista ripresero vigore, fino a soffocare l'originalità del gruppo.
Ma resta pur vero che la concezione peculiare del rapporto tra autonomia operaia, potere e sviluppo, che Potere operaio aveva elaborato nella prima fase della sua storia, sfuggivano al modello storicista della realizzazione del socialismo.
Inoltre il giudizio sul modo di produzione socialista era incompatibile con la tradizione emme-elle.
Da quando, con la NEP Lenin aveva affermato che il socialismo era "i soviet più l'elettrificazione", e aveva dichiarato la necessità di accogliere il modello taylorista, il socialismo si era trasformato in quel che non poteva non essere (ed in questo i mensevichi avevano ragione): capitalismo burocratico.
Potere operaio non sviluppò una riflessione approfondita sul modello sovietico, sul suo carattere feudal-burocratico, sull'apparato militare come cemento della sua struttura sociale , e sulla conseguente sua vocazione imperialista.
Ma in Italia, occorre dirlo, questa riflessione non è mai incominciata.
Studi come quello di Castoriadis, che in Devant la guerre , Paris, 1981, analizza il carattere stratocratico dell'Urss, e la sua intrinseca rigidità, o come quelli di Isabelle D'Encausse, che in L'empire en miettes Paris, 1981, preconizza l'esplosione dell'Impero per effetto delle pressioni identitarie e centrifughe, in Italia non hanno avuto l'influenza che avrebbero meritato. L'analisi sul socialismo realizzato e la sua crisi è così rimasta prevalentemente un'analisi istituzionale, politicista. L'ipocrisia del Pci, su questo punto, è stato l'ostacolo peggiore alla comprensione critica. Il Pci ha passato decenni a ripetere la formuletta sui "ritardi, gli errori, le deviazioni" del regime sovietico, rifiutando sistematicamente di mettere in discussione il carattere organicamente criminale di quel regime.
Ma la cosa è comprensibile, dato che il Pci è nato dalla stessa matrice, e ha funzionato organicamente come parte del sistema internazionale dell'autoritarismo.
Il crollo dei regimi socialisti era iscritto nell'orizzonte di possibilità previste dall'elaborazione di Potere operaio.
Quel che invece certamente era estraneo alle previsioni, è la stretta connessione tra crollo dell'impero sovietico e crisi di ogni prospettiva internazionalista, e quindi lo scatenarsi della guerra civile identitaria su scala planetaria. Questa è la prospettiva che vediamo dispiegarsi nel corso degli anni Novanta.
È a partire dalla crisi dell'internazionalismo che l'ossessione identitaria ha preso il sopravvento, colorando l'orizzonte planetario di una tonalità oscura.
Il cosmopolitismo metropolitano rimane limitato alla classe virtuale, al ceto globalizzato nella rete planetaria.
La grande maggioranza dell'umanità rimane esclusa dal circuito cablato del cosmopolitismo ipermoderno, e si aggrappa alle sue ossessioni identitarie.
I localismi residuali acquistano un'energia disperata.
Ma questo segna l'inizio della crisi dell'universalismo moderno.
Che vuole dire universalismo?
Possiamo parlare di universalismo quando può darsi con efficacia una prospettiva di valore etico, politico, esistenziale, che abbia forza normativa universale, a prescindere dalle differenze culturali.
All'universalismo borghese la dialettica materialistica opponeva il particolarismo proletario, la forza negativa di un interesse di parte che contiene in sè il nucleo di una forma più alta, compiutamente umana, della relazione sociale. Ma questo particolarismo aveva pur sempre (dialetticamente) un orizzonte universalista. Affermare con settarismo la particolarità operaia voleva dire, nella visione dialettica, porre le condizioni per un'universalità più alta.
Questo schema ideologico è di evidente derivazione hegeliana, storicista. Ma ciò non toglie che l'internazionalismo fosse qualcosa di più concreto di un proposito morale.
L'internazionalismo non era un astratto valore da perseguire, ma un dato di esperienza collettiva che viveva nella lotta degli operai contro il capitalismo e nell'unità degli interessi proletari che non hanno frontiere.
Gli operai hanno il medesimo interesse in ogni luogo del pianeta: appropriarsi di quote crescenti della ricchezza da loro stessi prodotta, e ridurre il tempo della loro dipendenza dal lavoro salariato.
Quanto più forti sono gli operai in un punto del ciclo, tanto più forti sono gli operai in tutti gli altri punti del ciclo.
Queste elementari verità non ci permisero di prevedere un mutamento culturale così profondo come quello che si è verificato, in conseguenza dell'attacco capitalistico degli anni Ottanta.
Per sconfiggere l'autonomia operaia, per ricacciare indietro l'onda libertaria e antiproduttiva dei movimenti, il capitale, nel corso degli anni Ottanta, ha creato le condizioni per il dispiegarsi di un'aggressività diffusa, che prende forma nel riemergere del "popolo". Il riemergere dei popoli sulla scena mondiale è il segno della sconfitta operaia: i popoli sono la particolarità non dialettizzabile, la particolarità senza progetto universale, la particolarità idiota.
Negli anni di fioritura dei movimenti, il fascismo, in tutte le sue forme, ci appariva come fantasma di un'epoca passata per sempre, oppure, al più, come strumento bruto della repressione.
Pensavamo alla possibilità di un totalitarismo di tipo nuovo, ma questo aveva i crismi della socialdemocrazia, dell'ipersviluppo tecnologico e concentrazionario.
Soltanto la socialdemocrazia ci appariva capace di scompaginare con la sua iniziativa di divisione il movimento degli operai per piegarlo nelle forme subalterne del riformismo e dello statalismo.
Pensavamo che fascisti e criminali di vario genere non potessero ricomparire sulla scena se non per iniziativa e per volontà dello Stato riformista.
Lo scenario degli anni Novanta è di tutt'altro genere. Non è più vero che le forze decisive siano il capitale e la classe operaia.
Come in un gioco di specchi il quadro si è frammentato, moltiplicato, rovesciato.
Capitale e classe operaia continuano a fronteggiarsi, ma in una relazione rovesciata, rispetto agli anni Settanta: l'iniziativa (che allora era degli operai), oggi è decisamente nelle mani del capitalismo finanziario internazionale.
Ma al tempo stesso sono comparse altre due figure: la classe virtuale , cioè il ciclo del lavoro mentale globalizzato, e la classe residuale , la massa informe delle popolazioni escluse dal ciclo produttivo, o mai entrate nel ciclo produttivo, che preme in forme aggressive per conquistare uno spazio di sopravvivenza e di riconoscibilità nello spettacolo planetario.
In questa nuova configurazione la parola rivoluzione non significa più niente, ma non significa più niente neanche la parola democrazia politica. Non significa più niente alcuna parola che si iscriva in una prospettiva universale.
Non esiste più un piano etico, immaginario, progettuale che sia comune alle figure del lavoro frammentario globalizzato, perché non esiste un piano di consistenza sociale che sia loro comune.
Il capitale le attraversa tutte, perché mantiene la posizione di agente di codificazione generalizzata. Ma le figure del lavoro mentale sono al tempo stesso frammentarie nella loro intima costituzione, e globali nella loro relazione estrinseca, mediata dalle tecnologie.
Una dialettica strettissima tra progresso capitalistico e rivoluzione operaia era l'orizzonte prospettico del pensiero di Potere operaio.. Il comunismo non era che un'arma di questa lotta, e il processo medesimo di quella dialettica.
"Il comunismo è il movimento concreto che abolisce lo stato di cose presente."
Quella dialettica ha prodotto i suoi frutti, l'autonomizzazione del lavoro dalla fabbrica, l'intellettualizzazione, l'enorme potenziamento produttivo, la riduzione del lavoro necessario alla riproduzione del mondo.
Ma a questo punto il mondo si presenta in un'altra luce. Non più la luce della dialettica in cui le soggettività particolari producono una prospettiva universale, ma la luce inquietante della devoluzione, di una regressione che la società infligge a se medesima per reggere l'impatto mutageno che il capitale provoca nella sua composizione antropologica e psicochimica.
Una forma riconoscibile della devoluzione è il fascismo.
Fascismo, che strana parola, che parola informe. Per molto tempo mi sono arrovellato alla ricerca di un concetto capace di definire le differenti (e contraddittorie) forme dell'autoritarismo, dell'integralismo, dell'aggressività etnica o nazionalistica e così via. Non sono riuscito a tirarne fuori gran che.
Nel suo articolo Il fascismo eterno , Umberto Eco riconosce che "le caratteristiche non possono venir irreggimentate in un sistema, molte si contraddicono reciprocamente e sono tipiche di altre forme di dispotismo e di fanatismo. Ma è sufficiente che una sia presente per coagulare una nebulosa fascista." (U.Eco: Cinque scritti morali , Bompiani, Milano, 1997, pag. 38). Dopo di che elenca una serie di caratteri dell'Ur-fascismo: il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, l'azione per l'azione, la paura della differenza, e così via.
Ma, per quanto interessanti e pertinenti possano essere questi caratteri, Eco medesimo riconosce che lo sforzo definitorio alla fine appare frustrato perché l'oggetto continua a sfuggire. Ad esempio, dopo aver detto che il fascismo è contrario al modernismo occorre però riconoscere che il fascismo storico ha avuto un ruolo di modernizzazione della società, sia in Italia che in Germania. Ecco allora che, in assenza di una definizione soddisfacente e comprensiva, corriamo il rischio di definire fascismo tutto ciò che ci fa un po' di ribrezzo, e di identificare il fascismo, semplicemente, come partito dell'imbecillità e della violenza: come il partito del male. E questo, naturalmente, non funziona, non definisce alcunché.
Il problema è che ciò a cui ci riferiamo, usando questa parola imprecisa e storicamente troppo datata - fascismo - è un campo estremamente vasto di modi di vita, comportamenti, ideologie, pregiudizi, che hanno, in ultima analisi, un unico elemento in comune: l'ossessione definitoria.
L'ossessione di definire è, in ultima analisi, la caratteristica comune al campo di fenomeni che definiamo "fascismo"; è comprensibile che ci sia qualche difficoltà nel definirlo.
Il "fascismo" , nella sua massima estensione concettuale (comprensiva del nazionalismo e dell'integralismo religioso, dell'autoritarismo politico e dell'aggressività sessuale e così via...) può essere ricondotto a una ossessione fondamentale: l'ossessione dell'identità, l'ossessione dell'appartenenza, dell'origine, della riconoscibilità .
Questa ossessione cresce, si estende, esplode nel corso del nostro secolo, proprio perché il nostro secolo è secolo della deterritorializzazione, della contaminazione culturale e della de-identificazione.
La pulsione che mi sembra guidare fondamentalmente i comportamenti riconducibili alla nozione comprensiva di "fascismo"
è la pulsione a riconoscersi come identici, identificabili, e dunque appartenenti a una comunità (di linguaggio, di fede, di razza...) fondata sull'origine.
Soltanto l'origine fa fede dell'appartenenza, e come sappiamo l'origine è un'illusione, una leggenda, un'attribuzione più o meno condivisa, ma infondata.
Non esiste l'identità etnica, più di quanto non esista l'identità linguistica. Per quanto ciascuno provenga da una storia di incroci e contaminazioni che non è testimoniabile né autenticabile, però ci sono illusioni di appartenenza etnica; per quanto ciascuno parli il proprio idioletto che non è mai integralmente traducibile da un altro parlante, però esistono illusioni di comprensione linguistica.
Su queste si fonda la convivenza.
Quanto più appare perturbato il campo della comprensibilità, dell'identificabilità etnica, della provenienza, tanto più acuto diventa il bisogno di identificare, fino a diventare un'ossessione.
Questa ossessione dell'autenticità la possiamo chiamare "fascismo" (a patto di sapere che stiamo compiendo un'operazione storicamente abusiva).
Il punto che ci interessa, qui, è che l'ossessione definitoria domina l'epoca della sdefinizione virtualizzante.
Ecco perciò che il fascismo appare segno dominante del secolo.
L'inumano compare infine come forma dominante delle relazioni umane: reazione devolutiva a uno sviluppo del capitale che, mentre procede trionfale, esclude e cristallizza sezioni crescenti del sistema nervoso planetario, e secerne disumanità.
Il capitale, dopo aver reso subalterna la variabile operaia, si appresta alla sua nuova, titanica impresa: subordinare l'intero ciclo dell'attività cognitiva umana a un sistema di automatismi economici cablati sul piano tecnologico, psicochimico e forse in futuro anche sul piano biogenetico.
Ma i residui che questa impresa lascia lungo il suo percorso sono residui immensi, che corrispondono alla maggioranza della popolazione umana.
Dopo aver incorporato l'autonomia operaia nella tecnica, e dopo aver eliminato così ogni prospettiva alternativa, il capitale si impone come coacervo degli automatismi non più governabili né contrastabili. Le interfacce tecnosociali si connettono progressivamente verso la trasformazione dell'economia globale in hive-mind , cervello alveare che funziona secondo finalità pre-iscritte e cablate nel corredo tecno-linguistico dei suoi terminali umani.
A quel punto, il superorganismo bioinformatico legge l'umano e lo scarta come rumore.
Questo processo va verso la creazione di una super-identità del tutto indifferente alle identità originarie (di sesso, di razza, di fede, di nazionalità). Ma nel processo della formazione di questa super-identità, un'enorme quantità di materiale umano viene scartato: la maggioranza dell'umanità, che rimane fuori dal circuito cablato della tecno-economia globalizzata.
Questo materiale residuo si identifica attraverso culti aggressivi, fondati sull'illusione di un'autenticità originaria da restaurare.
Solo l'affermazione di un'identità rende possibile la sopravvivenza in un mondo sempre più denso di progetti territoriali confliggenti, in un mondo dominato dal paradosso della ricchezza crescente che produce miseria in espansione.
Nell'orizzonte dell'evoluzione, il problema della liberazione e della felicità collettiva si pone allora in termini del tutto asimmetrici rispetto a quelli che abbiamo conosciuto. Come si riprodurrà la singolarità umana nella sfera del postumano?
Armonia, felicità, consapevolezza, come si potranno singolarizzare nella sfera della mente globale cablata?
L'universalità a cui il pensiero dialettico aspirava era risultato del processo medesimo delle particolarità capacità di farsi soggetto cosciente , e quindi superamento del particolare.
L'abolizione del lavoro salariato da parte della classe del lavoro salariato ben rappresentava questo processo di inveramento dell'intero a partire dall'affermazione negativa delle parti.
Quel che si è invece determinato è un altro tipo di universalità: l'universalità astratta del codice che semiotizza ogni frammento dell'esistente senza rispettare alcuna pulsazione della vivente particolarità umana.
Il secolo si conclude sotto il segno di una universalità disumana, l'universalità del Codice, dell'astrazione che si manifesta nel denaro, nella circolazione informatica e finanziaria.
Dunque un totalitarismo astratto e disincarnato tiene il posto della macchina di semiotizzazione universale.
E di fronte a questo ecco il massiccio ritorno dell'umano residuale, del corpo, della terra e del sangue, della tradizione e dell'identità: riaffermazione rancorosa e aggressiva della particolarità contro ogni altra particolarità in nome di nessuna universalità.
Franco Berardi (Bifo) from La nefasta utopia di potere operaio. Translated here into English