Una cittadinanza impossibile?
Etienne Balibar
From la rivista del manifesto numero 12 dicembre 2000. Traduzione di Anna Maria Merlo
Il
titolo previsto in un primo momento dagli organizzatori per il mio
intervento era il seguente: Analisi dello scontro tra coscienza civica
europea e poteri europei. Ma in che misura possiamo parlare, oggi, di
una 'coscienza civica europea'? E che cosa dobbiamo considerare
esattamente come 'poteri europei'? Prendendo deliberatamente in
contropiede un certo numero di discorsi trionfalisti tenuti oggi dai
governi, dalle stesse istituzioni europee e da una parte dei
commentatori politici, mi propongo di difendere qui l'idea 'pessimista'
secondo la quale l'Europa si sta avvicinando attualmente a un punto di
'impossibilità': e questo richiede una presa di coscienza, delle
proposte, delle iniziative. Su quali elementi si basa l'idea diffusa
che, malgrado gli ostacoli e gli episodi regressivi (crisi della mucca
pazza, divergenze sulle modalità di allargamento dell'Unione a nuovi
paesi, sull'armonizzazione della fiscalità ecc.), la costruzione
europea segua il corso previsto e superi persino tappe decisive?
Essenzialmente sulla progressione dell'integrazione monetaria,
amministrativa, più di recente militare e sull'istituzione dei
corrispondenti organismi sovranazionali. La diagnosi opposta che
intendo formulare non si basa sull'idea che le strutture politiche
sovranazionali o 'post-nazionali' sarebbero impossibili o
indesiderabili in quanto tali: al contrario, parte dall'idea che sono
assolutamente necessarie, ma che questa necessità si sta scontrando con
blocchi interni ed esterni che non sono ancora stati superati, e che
per di più vengono costantemente rimossi.
Questa negazione pesa molto sul circolo vizioso che gira attorno alla
questione della 'coscienza civica' in Europa. Gli effetti della guerra
dei Balcani - tra i quali bisogna annoverare l'istituzione di un
protettorato euro-statunitense su una serie di paesi della zona
balcanica, l'incoraggiamento dato al terrorismo di Stato russo ecc. -
sono rivelatori di questa situazione, che ha però radici più antiche e
profonde. A mio parere, rivelatore del tipo di 'crisi' nella quale ci
troviamo e dei mezzi impiegati per fermarla, per renderla
impercettibile, è il grado quasi nullo della circolazione delle idee,
delle proposte, dei dibattiti tra 'intellettuali'
europei, al di là dei circoli di esperti. Di conseguenza, tutto ciò
frena lo sviluppo di una 'sfera di opinione pubblica' europea, senza la
quale non c'è democrazia (non soltanto non c'è democrazia
rappresentativa, ma non c'è democrazia tout court). Certo, ci sono
eccezioni, che si rivelano quindi molto preziose: qualche gruppo di
ricerca comparata sulle forme della crisi dello Stato sociale in
Europa, e quindi sulle forme nazionali della protezione sociale e delle
trattative tra capitale e lavoro, cerca di colmare lo scarto tra le
'culture sindacali' e di rimediare al disequilibrio delle forze tra
padronato e movimento operaio in Europa; qualche tentativo (ancora più
raro) viene fatto a livello delle organizzazioni non governative (Ong)
per coordinare le riflessioni e le iniziative di azione umanitaria nei
Balcani, o di difesa del diritto d'asilo nello spazio Schengen. Ma, di
fronte a ciò, non esistono veri partiti politici europei (in
particolare a sinistra), ma solo gruppi di pressione comuni a Bruxelles
e a Strasburgo. Non esistono riviste o giornali europei 1. Non ci sono
compagnie teatrali o società di spettacolo europee e gli 'scambi' in
questo settore non si sono approfonditi o addirittura sono regrediti
dopo la fondazione del Théâtre de l'Europe da parte di Jack Lang e
Giorgio Strehler.
Poiché non credo che in questo campo ci si possa accontentare di
illusioni, vorrei cercare di analizzare un po' più nei dettagli le
forme e le cause di questo blocco, contro il quale si scontra
l'aspirazione di molti di noi a una nuova cittadinanza, che non
dovrebbe più restare chiusa nei limiti della sovranità nazionale né
paralizzata dalla crisi attuale. Questa analisi verrà sviluppata
attorno a quattro temi: a. la questione dello Stato, del popolo e della
'Costituzione' in Europa; b. il problema della cittadinanza sociale; c.
l'unità e la divisione dell'Europa; 4. immigrazione e diritto d'asilo:
il dilemma 'cittadinanza o apartheid' in Europa.
Lo Stato, il popolo e la 'Costituzione' in Europa
La costruzione dell'Europa come entità politica nuova presuppone
l'invenzione di una forma di Stato pluralista - chiamata federale o
confederale - che va oltre l'antitesi tra la 'sovranità nazionale',
diventata ampiamente fittizia, e un 'egemonismo continentale' senza
base popolare. Presuppone che la 'mondializzazione' venga percepita non
soltanto come un insieme di vincoli esterni, come un quadro economico e
tecnologico a cui la politica cerca di adattarsi in modo più o meno
efficace, ma come un processo di civiltà aperto, suscettibile di
evolvere in direzioni molto composite, a cui i popoli europei, nella
diversità delle rispettive culture e condizioni sociali, partecipano
come protagonisti. Per fare ciò è senza dubbio necessario che questi
stessi popoli siano in grado di immaginare, di rappresentarsi un'azione
comune: c'è quindi bisogno di ideologie o di 'miti' (nel senso dato da
Sorel al mito mobilitante). Ma, più in profondità, è necessario che
emerga un concetto di 'Costituzione europea'. A questo proposito, però,
sembra che i giuristi restino prigionieri dell'alternativa tra le
discussioni sulla forma costituzionale (la normatività giuridica, il
potere legislativo e vincolante delle diverse 'fonti' del diritto
gerarchizzato nell'Europa attuale) e i dibattiti metafisici sul 'potere
costituente' conferito dalla legittimità popolare (dietro il quale si
aggira sempre lo spettro della rivoluzione o della dittatura);
apparentemente, non sono capaci di immaginare né un concetto
'allargato' di Costituzione, alla Montesquieu: regime politico-sociale,
insieme storico non gerarchizzato di diritti individuali e collettivi,
forme di rappresentanza, di istanze di potere o di decisione; né un
concetto 'evolutivo' alla Gramsci, una Costituzione che sia
contemporaneamente un principio di apertura delle istituzioni alla loro
trasformazione, al loro proprio superamento.
Tutto ciò rinvia probabilmente a una stessa causa, che è la profonda
diffidenza nei confronti della partecipazione e dell'intervento
popolare, ciò che altrove ho chiamato il 'timore delle masse', che
viene giustificato facendo riferimento alla loro volubilità, o alle
possibilità di conflitto violento che potrebbe celare un intervento da
parte loro. In ogni caso, non sfuggiremo a un lungo dibattito sulla
forma e il posto dello Stato in Europa, che accompagnerà la
trasformazione delle istituzioni stesse e lo sviluppo dei conflitti a
cui ciò darà luogo. Per il momento, questo dibattito è in primo luogo
falsato dai miti relativi alla 'sovranità', ma non bisogna dimenticare
gli effetti perversi di una dimensione democratica formale (o che tende
a conservare soltanto il formalismo, vuotandosi dei contenuti che lo
giustificano: la cittadinanza attiva e le sue pratiche collettive) e di
una burocrazia proliferante. C'è molta burocrazia oggi in Europa, ma
non c'è uno Stato nel senso di istituzione 'politica': una struttura di
decisione, di rappresentanza, di amministrazione pubblica secondo i
criteri dell'interesse generale. Ora, ci sono buone ragioni per
stabilire uno stretto collegamento tra l'idea di sovranità popolare,
cioè di una direzione degli affari comuni da parte delle masse
popolari, e l'istituzione politica statale; ma è del tutto mitico
credere che gli Stati nazionali abbiano conservato i mezzi per riunire,
da soli, le condizioni di una gestione 'sovrana' dei problemi sociali,
economici, culturali da cui dipendono la vita quotidiana e l'avvenire
delle generazioni. In realtà, siamo di fronte a uno scarto flagrante
tra i poteri reali (che non sono nulli, ma limitati) e le pretese o i
miti, che contribuiscono a chiudere le prospettive della costruzione
democratica in un'alternativa ristretta tra sovra-nazionalità o
dissoluzione delle entità nazionali da un lato, e dall'altro
restaurazione pari pari delle prerogative dello Stato-nazione, o più
precisamente dei più potenti Stati-nazione, un tempo forti del loro
ruolo imperialista nel mondo (ciò che a volte in Francia è chiamato
'sovranismo').
Dal
momento in cui ci arrendiamo alla seguente doppia evidenza - nessuna
pratica collettiva della politica senza strutture pubbliche (quindi
statali), nessuna struttura pubblica, o Stato, in Europa, senza uno
sviluppo della pratica politica comune (insomma, nessuna 'politica
senza politica', che è invece il sogno di ogni burocrate che vorrebbe
sostituirla con le trattative, la gestione e la fabbricazione del
'consenso') - tutte le questioni tradizionalmente legate all'idea di
sovranità (e persino questa stessa idea) devono essere ridiscusse:
popolo e nazione, Costituzione e democrazia, amministrazione e
rappresentanza. Non ho la pretesa di farlo qui, ma vorrei attirare
l'attenzione su una questione di principio che è decisiva dal mio punto
di vista.
Ho parlato di proposito di uno 'Stato pluralista'. Si tratta di far
funzionare una pluralità di livelli di organizzazione e di
partecipazione, di moltiplicare di conseguenza le istanze di sovranità
(a questo proposito sottolineo per inciso che questa idea non è poi
così 'anti-giacobina' come si potrebbe credere: difatti, troppo sovente
vengono confusi giacobinismo e tradizione napoleonica di
centralizzazione amministrativa assoluta). Ma si tratta anche di
rendere compatibili tra loro, per ogni cittadino, una pluralità di
riferimenti culturali (linguistici, religiosi, professionali). Se
affrontiamo i problemi da questo angolo, la questione dell''identità
europea', regolarmente brandita come arma politica (per esempio quando
si tratta di sapere dove devono essere tracciate le 'frontiere
dell'Europa' che precludono in anticipo le possibilità di apertura, in
particolare verso est e sud-est) appare come un falso problema, o
piuttosto come un problema che non ha altro contenuto oltre alla
risoluzione delle questioni pendenti relative alla cittadinanza
democratica. Ma, evidentemente, per istituire questo pluralismo delle
'appartenenze' non è possibile riprendere come tale nessun modello
storico o ideale esistente di costruzione dello Stato e della
cittadinanza, anche se è possibile riflettere su alcune esperienze
passate (in particolare quelle delle federazioni e degli imperi
'multinazionali' e 'multiculturali'). Bisognerà proprio inventarne uno
di sana pianta, sulla base delle forze esistenti, delle tradizioni
democratiche dei diversi paesi europei, e sulla base della stessa
soluzione dei problemi, che proprio perché irrisolti portano alla crisi
attuale.
Questa forma di Stato vedrà la luce (e sarà anche solo immaginata) se,
rispetto alle 'Costituzioni' degli Stati nazionali attuali, corrisponde
a un progresso della cittadinanza democratica e non a una regressione o
a un allontanamento dal suo oggetto iniziale. Per questo motivo sono
convinto che è assolutamente irrealista rappresentarsi la costruzione
politica europea secondo lo schema 'verticale' che prevale attualmente.
Deve essere chiaro che la costruzione statale è soltanto possibile
attraverso la costituzione di un 'popolo europeo' che serva da
referente, sia in termini di legittimità che in termini di potenza
politica reale. In mancanza di ciò, avremmo a che fare soltanto con uno
statalismo sovrapposto alle coalizioni degli interessi nazionali, che
suscita manifestazioni di rigetto nella stessa misura in cui estende il
controllo sulla società.
Ma perché non c'è un 'popolo europeo' in costruzione, salvo sotto la
forma di germi limitati e preziosi, in alcune iniziative culturali e
intellettuali o nella fragile convergenza di movimenti associativi?
Perché si può avere la sensazione che, paradossalmente, questo processo
di formazione di una 'sfera pubblica' che sia all'altezza delle sfide
della politica mondializzata non solo non sia progredito ma sia
addirittura regredito da una decina di anni a questa parte?
Questo non avviene perché delle 'identità nazionali' tradizionali, e
come tali insuperabili, vi opporrebbero un ostacolo assoluto, visto che
questa contraddizione effettiva fa parte dei dati del problema, e non
deve essere considerata come immobile; ma avviene per ragioni
specificamente politiche, che ci rimandano all'incapacità collettiva di
determinare se la costruzione europea costituisce un progresso o una
regressione della cittadinanza in Europa. Bisogna tentare di dare a
questa alternativa, o crisi latente, una configurazione più concreta,
evocando alcuni dei suoi punti di maggior rilievo. Ne esaminerò tre,
che mi sembrano decisivi e la cui sovrapposizione produce un effetto
cumulativo: la questione della cittadinanza sociale in Europa, quella
della divisione del continente europeo in zone di accesso ineguale
all'autodeterminazione dei popoli, infine quella dello sviluppo
rampante di un apartheid europeo legato al modo in cui vengono trattate
le questioni dell'immigrazione e del diritto d'asilo.
Il problema della cittadinanza sociale
Il modello di cittadinanza che si è tendenzialmente sviluppato nel
corso del XX secolo in Europa occidentale (se non stabilizzato
dappertutto) non è rimasto quello di una pura cittadinanza politica,
fondata sulla rappresentanza delle correnti di opinione e degli
interessi su scala locale e nazionale. Ha parzialmente incorporato
nella teoria (a livello di testi costituzionali che parlano di diritto
all'esistenza e di repubblica sociale) e soprattutto nella pratica
(attraverso strutture di regolazione dei conflitti, di partecipazione,
di cogestione degli organismi di previdenza ecc.) un certo numero di
diritti sociali fondamentali, il cui complesso
costituisce ciò che è stato chiamato una 'cittadinanza sociale'.
Bisogna però sottolineare che quest'ultima è stata istituita nel quadro
del rafforzamento dell'equazione 'cittadinanza-nazionalità' e di una
concezione esclusivamente nazionale della sovranità (per non parlare
della 'preferenza nazionale' di fatto: sappiamo che su questo punto,
grazie alle lotte del movimento operaio, ci sono eccezioni non
trascurabili). Però nessuna cittadinanza sociale europea,
corrispondente all'estensione dei diritti sociali e delle possibilità
di intervento del movimento sociale nella regolazione dell'economia, è
per il momento in vista. Senza dubbio ciò dipende dal fatto che la
questione della cittadinanza sociale viene oggi presa nella morsa della
protezione dei diritti acquisiti minacciati dall'ultra-liberismo
('protezione della protezione', in qualche modo, che può trasformarsi
in protezionismo) e della lotta contro l'esclusione (che Robert Castel
descrive come fenomeno massiccio di allontanamento dalle strutture
organizzative, legato alle trasformazioni della società del lavoro
dipendente: a un tempo, limiti del controllo sociale che ha permesso di
costruire l'edificio della protezione sociale, di rendere autonomo
l'individuo e liberarlo dall'insicurezza cronica, e riproletarizzazione
di interi gruppi sociali nel quadro della mondializzazione economica)
2. È su questa questione, lo sappiamo, che si costruisce la divisione
interna alla 'social-democrazia' europea. È certamente significativo
che il dibattito avvenga all'interno della social-democrazia, piuttosto
che nel 'conservatorismo europeo'. Ma purtroppo una via d'uscita non è
in vista: un regime di assistenza ai poveri organizzato su scala
europea non è né pensabile né auspicabile; un completo smantellamento
dei regimi di sicurezza sociale sarebbe sinonimo di esplosioni
politiche (non necessariamente a sinistra, e questo è il rischio dei
'populismi' europei); una ripresa dell'iniziativa pubblica legata al
riconoscimento istituzionale dei 'movimenti popolari' su scala europea,
che viene chiamata neo-keynesismo o altrimenti, non è ancora
suscettibile di raccogliere forti consensi: le sue grandi linee non
sono neppure tracciate.
Per questo motivo insisto molto qui sulla necessità dell'iniziativa dal
basso: la funzione cruciale dell'unità del sindacalismo Europeo,
l'importanza della comunicazione tra i movimenti di difesa e di
rinnovamento della cittadinanza sociale (che abbiamo visto delinearsi
nel dicembre '95 e in altre circostanze), l'importanza delle
convergenze tra rivendicazioni di diritti culturali e di protezione
della qualità della vita. La 'cittadinanza sociale', quando, a
condizione di rispettare certi rapporti di forza, è stata messa in
pratica, non è mai stata completamente incorporata alla 'Costituzione'
degli Stati-nazione, neppure di quelli maggiormente sviluppati
economicamente e più avanzati dal punto di vista democratico; non è
stata pensata dappertutto negli stessi termini (fa parte talora delle
contrattazione, alle volte dell'assistenza, dell'amministrazione e
della società civile). Sostenere che la costruzione europea dipende
dalla possibilità di inscrivere nella 'Costituzione europea' un
progresso sul fronte della cittadinanza, significa giustamente
sottolineare la seguente alternativa radicale: o l'Europa istituisce la
cittadinanza sociale su basi più solide e più ampie, oppure, prima o
poi, diventa impossibile. È giustamente in questa prospettiva (e non in
quella di 'beneficiare' delle forme più avanzate di liberismo) che i
popoli dell'Est hanno fatto la 'rivoluzione del 1989': cosa che mi
porta direttamente al punto seguente. L'unità e la divisione
dell'Europa Questo problema ha molteplici aspetti, cristallizza una
lunga storia di differenze sempre suscettibili di trasformarsi in
antagonismo, e in un certo senso potremmo dire che la caratteristica
propria dell'Europa è che ognuna delle sue regioni storiche contiene
ancora altrettante cause di divisione del continente tutto intero. Ma è
chiaro che nella congiuntura attuale e ancora per lungo tempo, la
questione che dominerà tutte le altre è quella delle conseguenze della
divisione storica che, dopo il '45 e per mezzo secolo, ha tagliato in
due il continente europeo, e del modo in cui questa condizione è finita
(se possiamo dire, effettivamente, che sia finita). è quindi, se
vogliamo, il problema dell''Europa dopo il comunismo'.
Torno qui, in breve, su ciò che avevo avuto l'occasione di sviluppare
tempo fa 3: non soltanto la 'costruzione europea' nella sua forma
istituzionale attuale, come ammettono tutti gli storici e gli analisti
seri, è 'figlia della guerra fredda' 4, ma lo scontro (politico,
sociale, economico, spirituale), il quadro della divisione dei 'due
campi' (prima forma contemporanea della mondializzazione, non
dimentichiamolo), erano in realtà due concezioni di 'progetto europeo'.
C'è stata una 'Europa dell'Est' e non soltanto una 'Europa dell'Ovest'.
E oggi cominciamo a riscoprire - in particolare nel quadro delle
riflessioni sulla persistenza degli ostacoli a una reale unificazione
tedesca - che l'Europa dell'Est, per quanto dittatoriali e regressive
siano state le sue forme politiche, aveva anche una propria 'cultura',
una propria 'società civile'.
A questo riguardo, il paradosso della situazione dopo il '90 (di cui
cominciamo a prendere coscienza, a causa della crisi russa, degli
sviluppi della guerra civile nella ex Jugoslavia in una interminabile
deriva sanguinosa, del 'malessere' della Germania Est, ecc.) è che
abbiamo trattato finora gli effetti del crollo del 'totalitarismo' come
se in Europa ci fosse stata una sola società, come se il 'socialismo
reale' fosse stato un sistema immaginario (e non soltanto
anti-democratico, contraddittorio o fallito). Di conseguenza, il crollo
del sistema socialista di tipo sovietico all'est dell'Europa non ha
generato nessun progetto di unificazione delle parti storiche del
continente e di cooperazione tra loro nella prospettiva di uno sviluppo
comune. Si è piuttosto tradotto in una continuazione delle strutture
della 'guerra fredda', come se si trattasse della 'vittoria' di un
sistema su un altro, cosa che comporta l'imposizione di una gerarchia
di rapporti clientelari fra Stati. Le manifestazioni estreme di questa
dominazione 'post socialista' sono, lo si vede bene, fenomeni di
semi-colonizzazione e di 'containment'.
Più precisamente, abbiamo lasciato che si insediasse un sistema a vari
cerchi: il primo è quello dell'Europa 'vera', per contrasto con
l''Europa esterna' che chiede ancora di essere 'europeizzata' 5.
Quest'ultima, a sua volta, è divisa in zone di integrazione economica,
semi-politica (paesi 'candidati a entrare nell'Unione europea', visto
che l'obiettivo è di mantenere il più a lungo possibile il
differenziale nei salari, gestendo contemporaneamente l'integrazione
delle strutture politiche), zone di 'colonizzazione interna' (i
Balcani: non soltanto, ormai, il Kosovo, ma una vasta zona intorno, che
include l'Albania e il grosso dell'ex Jugoslavia); infine una zona di
capitalismo predatore (a vantaggio di chi va la crisi russa? Dove vanno
i fondi stornati dal Fmi?). Questa suddivisione si basa sulle
vicissitudini della storia recente, ma anche, più insidiosamente,
sull'idea che alcuni popoli per natura o per cultura storica non sono
'maturi' per la democrazia: ma come giudicare se vengono rifiutate loro
le condizioni essenziali? Non si può che generalizzare all'insieme
delle relazioni tra l'Ovest e l'Est dell'Europa la constatazione
disincantata dello storico britannico Timothy Garton Ash a proposito
dei rapporti tra le 'due Germanie' formalmente unificate: "sono
stupefatto e costernato dall'atteggiamento neo-colonialista dei
tedeschi dell'Ovest nei confronti dei loro compatrioti. È una sorta di
colonialismo interno"6. Il risultato di questo tipo di logica è appunto
la ricerca di una impossibile 'identità europea' come identità
normativa, esclusiva, chiusa, accanto alla prevedibile moltiplicazione
dei problemi di sicurezza (polizia, esercito, frontiere,
militarizzazione dell'Europa, in modo da mantenere l'ordine all'interno
e ai confini). Anche in questo caso, la sola soluzione in prospettiva è
un progetto molto chiaro di integrazione di tutti i paesi e di tutti i
popoli dello spazio europeo in uno stesso territorio di cittadinanza di
ispirazione 'cosmopolita', ma con sistemi decentralizzati
dell'amministrazione moderna. Questo diritto, che
tradurrebbe la volontà di liquidare le conseguenze di ottant'anni di
'guerra civile continentale', intrecciata alle 'guerre mondiali' e alle
'politiche dei blocchi', deve essere proclamato senza equivoci, anche
se le modalità della sua applicazione saranno progressivamente
negoziate e realizzate. Bisogna uscire dal paradosso costituito dalla
creazione in Europa di un 'imperialismo subalterno' (che non ha neppure
i mezzi per realizzare questa politica).
Immigrazione e diritto d'asilo: cittadinanza o apartheid in Europa
Un
ultimo ostacolo - e non il minore (particolarmente acuto in Francia, ma
il problema è generale) - intralcia la costituzione di un 'popolo
europeo': si tratta del fatto che la cittadinanza europea, anche nei
limiti dell'Unione attualmente esistente, non venga concepita come un
riconoscimento dei diritti e degli apporti di tutte le comunità
storicamente presenti sul suolo europeo, ma piuttosto come un
isolamento post-coloniale delle popolazioni 'autoctone' rispetto a
quelle 'allogene'. Questo, come contraccolpo, espone la comunità allo
sviluppo di irrigidimenti delle diverse identità, secondo il modello di
mutuo rafforzamento dei nazionalismi e dei comunitarismi (ivi compresi
i comunitarismi 'laici', 'repubblicani', ecc.), che la mondializzazione
favorisce.
Per questo motivo attribuisco un'importanza particolare al fatto che
venga messa in luce e affrontata collettivamente la questione della
diffusione dell'apartheid in Europa, cosa che va di pari passo con le
istituzioni formali della cittadinanza europea e che, in prospettiva,
costituirà un elemento decisivo del blocco della costruzione europea
come costruzione democratica. Non ignoro certo i problemi che può porre
il ricorso alla parola apartheid. Perché non accontentarsi di
analizzare l'insieme delle strutture di discriminazione che sussistono
in ogni paese, in particolare per quello che riguarda l'accesso alla
cittadinanza, ogni volta secondo
modalità storiche e giuridiche specifiche?
La mia risposta (sempre la stessa, tutte le volte che ho affrontato la
questione 7) è che la costruzione europea introduce un cambiamento
qualitativo, sia nel registro simbolico che nella realtà istituzionale.
Lo status di 'cittadino europeo', che finora ha costituito soltanto un
riferimento impreciso, comincia ad acquisire un contenuto effettivo
(diritto di voto, ricorso di fronte a comuni giurisdizioni di appello,
che sotto certe condizioni hanno preminenza rispetto ai tribunali
nazionali, status internazionale del civis europeanus materializzato da
un passaporto comune, accesso a servizi sociali e culturali comuni, per
esempio per quello che riguarda le borse di studio, ecc.). Ma il fatto
che, rispetto agli individui, questa 'cittadinanza' venga definita
(secondo il Trattato di Maastricht) come la semplice somma delle
cittadinanze nazionali dei paesi membri dell'Unione, trasforma la
posizione dello straniero. In ciascun paese, in particolare, non è
(teoricamente) che un cittadino di un altro Stato sovrano, che gode
quindi di una 'appartenenza' equivalente, che è oggetto di mutuo
riconoscimento.
Ma un immigrato 'extra comunitario', nell'Unione istituita da poco,
diventa un emarginato all'interno della società. Le esclusioni
'nazionali', totalizzandosi su scala europea, cambiano oggettivamente
di significato: la 'cittadinanza europea' si presenta ormai come un
meccanismo che include determinate popolazioni storicamente presenti
nello spazio europeo, respingendone altre che, in maggior parte da
lunga data, contribuiscono anch'esse allo sviluppo della 'società
civile' del nuovo spazio politico. Gli stranieri (in particolare i
lavoratori immigrati, o coloro che chiedono asilo) sono diventati dei
second class citizens, generalmente stigmatizzati a causa delle loro
origini etniche e delle caratteristiche presupposte delle loro culture,
sottoposti a sorveglianza speciale per le entrate e le uscite, il
soggiorno e le attività svolte.
L'esclusione, è facile constatarlo, riguarda sia le popolazioni del
'Sud' legate all'Europa da circuiti più o meno antichi, più o meno
legali, di reclutamento della manodopera, sia l'ammissione selettiva
dei popoli dell'Est e del Sud-Est europeo nella 'comunità'. Come ho
affermato più sopra, è ormai chiaro che i diversi meccanismi di
esclusione dalla cittadinanza, ma di inclusione nell'economia, in
particolare per sfruttare le differenze di livello di vita e di
salario, costituiscono caratteristiche strutturali, 'gestite' in
funzione delle congiunture interne ed esterne. Un paragone implicito
con l'apartheid sudafricano non è quindi privo di senso. Non ha solo
una funzione di provocazione. Dobbiamo arrivare addirittura ad
affermare che, nel periodo storico che ne ha visto la scomparsa in
Africa, questo regime sta ricostituendosi in Europa? Il paragone non
spiega tutto, avremmo potuto pensare a molte altre situazioni di
ineguaglianza istituzionale (in particolare a quella che, negli Stati
Uniti, è a lungo sopravvissuta all'abolizione ufficiale della
schiavitù): ma ciò che suggerisce l'impiego del termine 'apartheid' è
il processo di formazione di una popolazione resa inferiore (nei
diritti, quindi anche nella dignità), tendenzialmente sottomessa a
forme violente di controllo 'in nome della sicurezza', che deve vivere
in permanenza 'ai margini', né assolutamente all'interno né totalmente
all'esterno, come se gli 'immigrati' dell'Est e del Sud avessero
lasciato dietro di sé (ma per ritornarvi periodicamente, o per inviarvi
le risorse necessarie a uno 'sviluppo separato' o per tentare di farvi
vivere le loro famiglie) l'equivalente degli homelands sudafricani di
un tempo (di qui l'estrema importanza e la sensibilità al problema del
ricongiungimento familiare e dei 'diritti sociali' per le famiglie
immigrate, non a caso uno dei bersagli privilegiati della propaganda
xenofoba). In altri termini: ciò che Catherine de Wenden ha giustamente
chiamato "la sedicesima nazione europea" resta disperatamente esclusa
dalla costruzione di una cittadinanza in Europa: abbiamo ricreato i
'meteci', se non addirittura gli 'iloti'! 8
Sarebbe ingenuo pensare che lo sviluppo di un tale razzismo istituzionale in Europa non avesse nessun rapporto con il processo di 'mondializzazione' in corso, che invade sempre più lo spazio europeo 9. Credo più giusto vedervi un doppio effetto di proiezione delle caratteristiche generali della nuova gerarchia mondiale dei poteri, delle possibilità di sviluppo e dei diritti personali, e di reazione alla mondializzazione, ritenuta portatrice di un pericolo mortale per le culture storiche dell'Europa. Questa inclusione differenziale dell'Europa (e dell'apartheid europeo) nel processo di mondializzazione spiega come, sempre di più, come altrove nel mondo, la figura tradizionale del nemico esterno venga sostituita da quella del nemico interno (o meglio ancora dall'invasore malefico - alieno - infiltrato tra di 'noi'). Rimanda a un'economia della violenza mondiale che, già da uno o due decenni, si è profondamente trasformata (e, con ogni evidenza, aggravata, al punto che sono ora poche le regioni o i regimi politici, che, rispetto a essa, possano assolutamente considerarsi luoghi di rifugio, anche se sarebbe arbitrario confondere situazioni diverse).
Conclusioni
Sono
brevi. La congiunzione di questi diversi fattori spiega il mio relativo
pessimismo. Vorrei tuttavia essere ben compreso sul
seguente punto: ciò che qui chiamo 'pessimismo' rimanda anche alla
celebre frase di Romain Rolland, ripresa e popolarizzata da Gramsci,
"pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà". La situazione
in cui ci troviamo e che ho cercato di descrivere
senza compiacimenti significa che non sono i discorsi pietosi sulla
'coscienza civica' che possono permettere di rilanciare il processo
democratico su scala europea. Non pensiamo che l'Europa verrà fatta
'dall'alto', ma non lasciamo neppure l'iniziativa dei movimenti e degli
interventi 'dal basso' (o trasversali, 'civili', 'sociali') in mano
alle forze anti-europee o euro-conservatrici (vale a dire in
particolare che dobbiamo prendere molto sul serio sia i movimenti
'populisti' come quelli che crescono in Francia, in Italia, in Austria,
in Svizzera, nella Fiandre, alla ricerca di una formula 'né a destra né
a sinistra' che finalmente funzioni, sia le combinazioni 'rosso-brune'
a cui dà luogo il crollo del comunismo storico). Questa situazione
designa - dall'università al sindacalismo, dalla questione
dell'apertura delle frontiere a quella dei diritti civili degli
immigrati - alcuni campi di lavoro sulla cittadinanza, che sono
altrettante aree di riflessione collettiva e di lotta. È il senso
dell'internazionalismo oggi: conferire loro il massimo di chiarezza e
di intensità, in modo da riaprire le prospettive storiche e politiche.
Etienne Balibar è professore di filosofia politica e
morale all'Università di Nanterre (Paris X)
Note: *Il testo deriva dall'intervento conclusivo pronunciato da Balibar, a Parigi, alla sessione autunnale dell'Università della Lega dei diritti dell'uomo.
1 Durante la discussione che ha fatto seguito alla conferenza, mi è stato obiettato su questo punto che esistono numerose edizioni straniere di "Le Monde Diplomatique": mi correggo volentieri su questo punto, ma sottolineo che le traduzioni o gli adattamenti non sono per nulla l'equivalente di una redazione multinazionale.
2 Cfr. Robert Castel, Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Fayard, 1995 (nuova edizione, in Folio, Gallimard, 1999).
3 E. Balibar, L'Europe après le comunisme, in Les Frontières de la démocratie, Ed. La Découverte, 1992.
4 Cfr., per esempio, Bino Olivi, L'Europe difficile. Histoire politique de la communauté européenne, Folio Gallimard, 1998.
5 Cfr. il testo di Ismaël Kadaré, "Le Monde" 17 aprile 1999: Il faut européaniser les Balkans.
6 L'Europe de l'Ouest a raté une extraordinaire opportunité, intervista con Timothy Garton Ash, "Libération", 2 novembre 1999.
7 Cfr. in particolare E. Balibar, Une citoyenneté européenne est-elle possible?, in: Droit de cité. Culture et politique en démocratie, Editions de l'Aube, 1998; Le droit de cité ou l'apartheid, in E. Balibar, M. Chémillier-Gendreau, J. Costa-Lascoux, E. Terray, Sans-papiers: l'arcahïsme fatal, Editions La Découverte, 1999.
8 Cfr. Catherine Wihtol de Wenden, La citoyenneté européenne, Presses de la Fondation nationale de sciences olitiques, 1997.
9 Cfr. Andrea Rea (a cura di), Immigration et racisme en Europe, "Complexe", Bruxelles, 1998.