PARTE II Prolegomeni di un’ontologia della sovversione |
Introduzione Ho tra le mani un piccolo libro, recentemente pubblicato da Suhrkamp, intitolato Mythologie der Vernunft. Hegels ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus (1). Esso raccoglie, oltre al testo e ad un’introduzione critica dei curatori, gli articoli che a questo piccolo e fondamentale scritto sono stati dedicati da Franz Rosenzweig, Otto Pögler, Dieter Heinrich, Annemarie Gethmann-Siefert. I curatori sono Christoph Jamme e Helmut Schneider. Non voglio entrare nella polemica sulla paternità del testo e fare un’ennesima congettura - se ne sia Hegel o Schelling o Hölderlin l’autore - tanto più che anch’io non sono in difetto in proposito, avendo studiato il problema nei miei primissimi esercizi filosofici (1958: sul giovane Hegel (2) e 1959: sulla storiografia (3) di Wilhelm Dilthey e della sua scuola) e poiché non mi sembra di poter rinunciare, sulla questione dell’attribuzione, alle conclusioni di Rosenzweig. Voglio solo riprendere questo << antichissimo >> testo come origine e farci attorno qualche considerazione. Leggo qualche passo (in una mia libera traduzione) (4): << Un’etica. Poiché l’intera metafisica si concluderà nella morale - cosa della quale Kant con i suoi due postulati pratici ha solo dato un esempio senza ciò nulla esaurire - così quest’etica non sarà altro che un sistema completo di tutte le idee, ovvero, che è la medesima cosa, di tutti i postulati pratici. La prima idea è naturalmente la rappresentazione dell’io stesso, come di un’assoluta libera essenza. Con la libera, autocosciente essenza nel medesimo tempo vien [sic] fuori un mondo intero, dal nulla - l’unica vera e concepibile creazione dal nulla. - Io vorrei qui entrare - 29 -
Questo testo mi ha sempre sconvolto. Potrei dire che tutta la prima fase del mio lavoro filosofico maturo (negli anni Sessanta: dallo studio sul formalismo dei giuristi kantiani (5) fino alla traduzione ed al commento degli scritti di Hegel del 1802-1803 (6), dagli studi sulla macchina dello Stato (7) alle parallele ricerche sul cartesianismo nell’ideologia politica e statuale (8) - che questa prima fase matura di lavoro filosofico non sia stata dunque altro che una riflessione sull’attualità di questi temi: riprendendone la fortissima valenza critica, e cioè guardando come l’opera umana della libertà venga resa meccanica e ridotta al nulla dai grandi poteri che le si oppongono la natura produttiva e lo Stato. Ma debbo subito aggiungere che nei miei studi di allora, solo sulle sfondo resisteva il senso costruttivo di queste tematiche critiche, e cioè il tentativo di identificare che cosa potesse oggi essere una nuova mitologia della ragione, della libertà, un’estetica - 30 -
Ma ritorniamo al frammento programmatico. La copia hegeliana è dell’inizio dell’estate del 1796. La grande Rivoluzione sta giungendo all’apogeo del suo sviluppo. Ora, nelle pagine del frammento, essa è il presupposto del sapere. Se la libertà umana è il fondamento, il sapere non può presentarsi che come etica e come costituzione. Giorgio Agamben, uno dei pochissimi filosofi italiani in questa stanca epoca, ha di recente nuovamente sottolineato questa verità (10). Come ha potuto allora, questa grande rivoluzionaria rifondazione, essere così brutalmente tradita? Come ha potuto, alla base della nostra cultura filosofica, la dialettica dell’idealismo tedesco, ripetere il gioco dagli atroci risvolti di una Dialektik der Aufklärung? Perché l’immediatezza di una nuova e potente estetica trascendentale, anziché svolgersi verso la sfera dell’immaginazione vera, è stata sottoposta alla mediazione dell’analitica trascendentale, a questa artificiosa prigione del desiderio di costituzione? Leggo le Lezioni sulla fenomenologia dello spirito di Hegel tenute da Martin Heidegger (11). Vi sento, magistralmente interpretata, non una risposta alla questione bensì un’apologia di questo risultato. Heidegger mi offre il senso presente di un’ottusa analitica dello spirito, della storia e della libertà - che è divenuta impotenza dell’immaginazione e del corpo. L’effettivitá storica di questa comprensione aumenta il disagio a fronte della tragica consonanza con la quale l’autore l’accompagna. Leggo Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritische - 31 -
Se ho citato questi volumi, non è perché occasionalmente (non potendo, in questo periodo, frequentare se non episodicamente le biblioteche) me li sono trovati fra le mani. L’occasione non ne toglie il valore di indice generale. Ebbene, qui, emblematicamente, il sogno dell’unificazione logica del sapere e l’hegeliana Darstellung di una logica dell’essere si mostrano e sono offerti come radice dell’errore. In verità, dopo la rivoluzione, non è l’essere che si è appropriato della logica bensì è la logica che si è appropriata dell’essere. Con Hegel la logica è divenuta la matrice dell’ideologia ed un’analitica stringente si è opposta all’estetica trascendentale della libertà. Lo spazio dell’estetica trascendentale è stato ridotto, nel migliore dei casi, a misure fenomenologiche. Il rapporto costitutivo fra estetica e dialettica trascendentale dell’immaginazione vera è stato costrittivamente attraversato da un’analitica, da un’epistemologia, asfissianti ed onnicomprensive. Il più antico programma dell’idealismo tedesco è divenuto il suo rovescio - e noi viviamo questa tragedia. Quando la filosofia contemporanea avverte questo esito diviene impotente. La caduta della dialettica, nella sua figura hegeliana, sembra comportare la rovina di ogni possibilità di costruzione. Così, nei momento nel quale la tragedia della ragione dialettica diviene storica e la ragione meccanica raggiunge l’apice della sua espressione determinata, realizzando completamente, fra Auschwitz e Hiroshima, il rovescio dell’antico programma di libertà dell’idealismo tedesco ed insieme mostrando l’efficacia distruttiva del decorso storico della dialettica, la filosofia si sente sull’orlo estremo dell’essere. Un orlo di distruzione, ove soffia e risucchia il vento del vuoto, - e l’orrore è moltiplicato. La favola della filosofia non può tuttavia aver fine. Questo nostro - 32 -
<< Un’etica >>. Con forza di anticipazione e capacità di raccogliere l’anomalia di una straordinaria condizione storica, Spinoza ci ha indicato questo cammino. Di nuovo qui posso ripercorrere la mia esperienza filosofica e i miei scritti degli anni settanta - una seconda fase del mio pensiero. Ora, fino a quando non ho incontrato Spinoza (13), se mi era chiara la necessità di rompere la subordinazione della volontà di valorizzazione dei soggetti alla meccanica della ragione analitica, non me è stato mai chiaro che a questo scopo andava interrotto il circolo vizioso delle omologie analitiche che continuamente si determinavano quando dall’esperienza soggettiva si passava all’oggettiva - e viceversa. Nel migliore dei casi, quando si scioglieva, lo spirito di sistema liberava (in polemica con l’analitica) volontà anarchica; viceversa, lo spirito anarchico resolve, alla maniera di un surrealista progetto, alla volontà di sistema. Nello schema filosofico tradizionale che subivo, la critica indicava la trascendenza del valore anziché assumere la possibilità radicale di sviluppare la potenza ontologica del soggetto. In tutti i miei scritti degli anni settanta (14), che apparivano come scritti politici ma erano essenzialmente scritti di metodo, mi sono mosso in questo circolo vizioso. E’ il circolo vizioso di un atteggiamento dialettico che rifiutavo ma non riuscivo ad evitare - anche nei momenti di più fervida rivendicazione del vero materialismo marxiano (15). Dall’autovalorizzazione dei soggetti all’autorganizzazione del partito, si diceva, dalla ricchezza cosciente della spontaneità all’autodeterminazione dei soggetti, al politico - e poi al comunismo (16). E’ sbagliato. Dentro questa trafila l’autodeterminazione diviene trascendenza. E’ trasfigurazione - 33 -
Non solo Schelling, Hölderlin, Hegel hanno conosciuto la rivoluzione come preambolo: anche noi abbiamo piantato i nostri alberi della libertà. Fra il 1917 e il 1968 lo sviluppo pauroso dell’analitica della ragione ha avuto come corrispettivi il gioioso liberarsi di un’estetica della libertà ed un’immaginazione vera. Di nuovo una mitologia della ragione si è presentata come possibilità filosofica. Di nuovo, di contro, contemporanei, il tradimento, il pentimento e l’analitico sistema del terrore hanno schiacciato questa possibilità. Ma questo nostro destino è troppo feroce e le sue componenti troppo esasperate perché noi possiamo ancora illuderci. L’analitica ha immediatamente il volto della morte. A queste condizioni, l’estetica della libertà ha l’immediata robustezza ontologica dell’esistenza del corpo. Una nuova mitologia della ragione, un’ontologia dell’etica, della sensibilità, del corpo: non è possibile spostarle. Sono condizioni di esistenza. Troppi << nuovi credenti >> (come li chiamava Leopardi), troppe anime pallide, ricercano nella trascendenza la via d’uscita da questa tragedia nell’essere. << Asylum ignorantiae! >>. No, davvero questa forma dell’andar oltre il terrore analitico ha la figura del salto mortale. Già nella Germania degli anni Venti e Trenta, in questa comunque straordinaria vicenda culturale, questa via non significò evitare la catastrofe ma annunciarla. Un pensiero autodistruttivo. L’<< angelus novus >> non intendeva la rivoluzione come preambolo bensì come soluzione delle aporie analitiche della ragione. Non come condizione e Umwelt bensì come sviluppo ed Aufhebung. Il passaggio dall’estetica alla dialettica dell’immaginazione fingeva così 1 superamento dell’analitica, in realtà ne subiva il dominio e di conseguenza scartava l’estetica come fondazione. L’Angelus novus non svolgeva l’estetica in liberazione ma la traduceva piuttosto nell’idea della redenzione. Erlösung - ci dice quello stesso Rosenzweig (17) che pure ci aveva restituito il Systemprogramm, quando, alcuni anni più tardi, non resiste alla potenza della morte che vede prendersi i suoi compagni nelle trincee della Bielorussia.
La rivoluzione come preambolo, il senso della grande trasformazione in corso e della tragedia incombente - come contenuto elementare dell’estetica: che cosa significa questo? Se, sull’orlo dell’essere, tutto può essere distrutto, tutto può essere anche costruito: il contenuto dell’estetica è un paradosso metafisico trasformato, attraverso le dimensioni delle possibilità, in paradosso pratico. L’essere è, il non-essere non è: recita l’antico adagio. Ma oggi l’essere può non essere. La possibilità della non esistenza, come competenza del soggetto, è una nuova attribuzione dell’analitica. Ma questo essere, divenuto assoluta contingenza, è possibilità di nuovo essere. La costituzione soggettiva filtra la possibilità di costituzione ontologica e radica [sic] quest’ultima nell’estetica trascendentale. L’analitica ci ha restituito il mondo come assoluta contingenza: con ciò si fonda la radicale possibilità dell’innovazione alternativa. Il contenuto assoluto della verità, posto dall’analitica come trascendenza sull’estetica, risorge invece dal basso - non è una richiesta di altro e d’assoluto bensì un altro e un assoluto che vivono prima. Un’etica, dunque, una costituzione della libertà. Il cammino che sale dall’immediatezza estetica della rivoluzione già data, posta come preambolo, su, fino alla dialettica dell’immaginazione vera - è questo il cammino che dobbiamo percorrere attraverso etica e costituzione, costituendo un’etica. Imponendo all’ontologia un’etica. Rovesciando così il processo che ci ha sempre portati fuori dalle dimensioni etiche dell’essere trasformato e ha sottoposto questo al dominio dell’analitica. Non può più essere concesso che la logica sia la matrice dell’ontologia e che l’etica si trovi di conseguenza relegata sull’orizzonte della
Ancora dal Systemprogramm << Nel medesimo tempo noi sentiamo sovente dire che le masse hanno bisogno di una religione sensibile. Non solamente le grandi masse, anche il filosofo ne ha bisogno. Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell immaginazione e dell’arte, questo è ciò di cui noi abbiamo bisogno! Parlerò quindi d’un’idea che, per quanto ne so, mai è venuta alto spirito di nessuno, non ancora almeno - noi dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee - essa deve divenire una mitologia della ragione >>. Commentiamo questo brano. Oggi, l’unificazione logica dell’umanità ci si propone nuovamente con conseguenze disastrose. L’insignificanza dei linguaggi e la guerra sono divenuti l’orizzonte dell’esistere: hobbesianamente solo il dominio ci propone possibilità di esistenza. Quale è la nostra miseria! Le differenze fra gli uomini sono organizzate sulla gerarchia del dominio. La grande macchina della rappresentazione logica del reale si è formalizzata e toglie la vita agli uomini, proiettandola nell’insignificanza e spingendola sull’orlo della distruzione assoluta (18). Come distruggere questa ristrutturazione analitica della ragione e proporre invece alla ragione un altro, diverso, umano orizzonte - una mitologia della ragione, un’estetica dell’immediatezza ragionevole? Ho percorso l’orizzonte della guerra armato di una mitologia della ragione, di una religione sensibile, perciò di quell’orrore non ho subito il dominio. Ora è per me il momento di riaprire, attraverso la più radicale critica dell’analitica, il canale di scorrimento fra la resistenza all’orrore e l’immaginazione sensibile della libertà. Entro in una terza fase del mio lavoro filosofico (19). Il misticismo di Wittgenstein e l’ascetismo dell’ultimo Husserl ci hanno mostrato il grande quadro dell’essere ormai spostato sulla linea della più assoluta Sinnlosigkeit del significante. Il post-moderno e le ideologie sistemiche hanno accolto e sviluppato in maniera apologetica quest’apprensione del mondo - senza il dolore che, in casi simili, è proprio della grande filosofia. Questo morto mondo può essere rotto dal lavoro vivo, dall’immaginazione vera del soggetto, da un’etica ragionevole dell’immediatezza. La possibilità del mito è interna alla contingenza feroce - 36 -
Un’etica? Sì. Una politica.
NOTE INTRODUZIONE 1) Mythologie der Vernunft. Hegels << ältestes >> Systemprogramm des deutschen ldealismus. hrsg. von C Jamme und H Schneider. Suhrkamp, Frankfurt, 1984. 2) Antonio Negri, Stato e diritto nel giovane Hegel. Studio sulla genesi illuministica della filosofia giuridica e politica di Hegel, Padova, CEDAM, 1958, pp. 288. 3) Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano, 1959, pp. 303. 4) Cfr comunque anche la traduzione di P Naville in Hölderlin, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1967, pp. 1157-1158. 5) Antonio Negri? Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962, pp. 400. 6) G W F Hegel, Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), traduzione e introduzione di Antonio Negri, Laterza, Bari, 1962. 7) Antonio Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 345; Scienze politiche 1 (Stato e politica), << Enciclopedia Feltrinelli-Fischer >> n. 27, a cura di Antonio Negri, Feltrinelli, Milano, 1970. 8) Antonio Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 212, 9) Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1965), in << Annuario bibliografico di filosofia del diritto >>, Giuffrè, Milano, 1967; Antonio Negri, La filosofia tedesca del Novecento, in << Storia della filosofia >>, diretta da Mario Dal Prà. Volume X, << La filosofia contemporanea: il Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978. 10) Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, 1982. 11) Martin Heidegger, La << Phénoménologie de l’esprit >> de Hegel, Gallimard, Paris, 1984. 12) Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritisce Funktion der hegelschen Logik, Suhrkamp, Frankfurt, 1980. 13) Antonio Negri, L’anomalia selvaggia. Potenza e potere in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 300. 14) Antonio Negri, Operai e Stato, Lotte operaie e riforma dello Stato capitalistico tra Rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano, 1972; Antonio Negri, Crisi dello Stato piano, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Proletari e Stato, Feltrinelli, Milano, 1976; A Negri, La fabbrica della strategia. 33 lezioni - 38 - su Lenin, Area ed, Milano, 1977, pp. 224; A Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano, 1978; A Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, Multhipla ed, Milano, 1979, pp. 176. 15) Antonio Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano, 1979. 16) Antonio Negri, Il comunismo e la guerra, Feltrinelli, Milano, 1980. 17) Franz Rosenzweig, L’Etoile de la Rédemption, Le Seuil, Paris, 1981. 18) Antonio Negri, Macchina-tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione, Feltrinelli, Milano, 1982. 19) Antonio Negri, Pipe-line, Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino, 1983. - 39 - Capitolo Primo. 1. L’indifferenza dell’universo della comunicazione. Ci sono tre elementi che caratterizzano l’orizzonte metafisico della nostra epoca. Il primo dato è che viviamo in un mondo nel quale solo l’immagine traduce l’esperienza. Ogni autonomo momento di produzione, ogni rapporto dal senso della proposizione al significato reale dell’evento, ogni trascendimento del contesto della comunicazione appaiono impossibili. La logica si muove su questo terreno: perciò non riesce mai a farsi epistemologia, senso e significato del nostro linguaggio sono irrimediabilmente separati. A partire da questa prima constatazione vengono molte conseguenze: in primo luogo sembra chiaro che di questa situazione linguistica non possiamo neppure parlare - ci siamo dentro, e qualsiasi tentativo di cogliere un riferimento reale non è altro che un trascendimento. Questa logica è autoreferenziale - meglio, è tautologica. Certo, il complesso delle proposizioni che descrivono la vita non può immediatamente essere riportato alla tautologia, - per la semplice ragione che la tautologia non può ricoprire la complessità. Ma è anche vero che la tautologia è il minimo comune denominatore di questo universo, che un’immaginaria riduzione ad elementi semplici degli insiemi linguistici non potrebbe che mostrare la tautologia come chiave di tutto l’universo logico. Ma allora come funziona (perché malgrado tutto funziona) questo nostro universo logico, questa nostra vita organizzata da giudizi e da inferenze logiche? Vi è un secondo elemento che è assolutamente fondamentale ritenere, ed è che questo universo linguistico, logico, che
La sfera linguistica nasconde la totalità del processo produttivo, meglio, l’assume per distruggerne le caratteristiche antagonistiche. E’ un fatto che quando tutto è produttivo non può esistere un criterio assoluto di misura - la misura cade, e con ciò cade anche ogni rapporto reale tra sfera della comunicazione e sfera della produzione. Ma se la sfera della produzione é completamente implicita nella sfera della comunicazione - come articolare il rapporto, come descriverlo, come dominarlo? Si conosce la risposta: è la moneta: quella merce universale che deve valere per queste funzioni. Ma è ben vero che per la moneta può essere detto esattamente quello che si è detto più in generale per il linguaggio. Con la moneta chiamo gli oggetti in maniera diversa, do loro un nome che è un prezzo - ma tutto ciò subisce la stessa circolazione insensata che è propria del linguaggio ed ormai nessuno può dire della moneta che i suoi nomi corrispondano, meglio fissino un reale. Forse è solo la forza che discrimina e rende ricchi: antica banalità, al di là della quale resta la necessità
Siamo dunque dentro un universo di sensi molteplici, ma sempre circolanti e tendenti all’unità linguistica (ed alla nullità epistemologica) della tautologia. Quest’universo registra la crisi della comprensione del rapporto fra senso e significato, fra nome e cosa, tra società e produzione. Ma questa crisi è dentro lo stesso orizzonte, lo stesso livello della circolazione. Ne viene, con la caduta di ogni parametro di confronto, di misura, un regno di indifferenza. L’indifferenza è la tendenza. Quanto più questo mondo si sviluppa, quanto più si matura e si perfeziona, tanto più esso diviene indifferente. Noi immaginiamo per questo mondo un’intercomunicabilità totale - ma laddove non esiste criterio di misura, riferimento oggettivo, ivi la comunicazione è caotica - meglio, è appunto indifferente. Ogni determinazione viene meno, ogni capacità di riferimento reale è annullata. Io ritengo che questi siano il termine e l’esaurirsi necessari del pensiero occidentale, da quando e perché esso ha scelto di privilegiare l’orizzonte del Logos, cioè l’orizzonte del comando, e di assumerlo a proprio esclusivo fondamento. Noi abbiamo bisogno di liberarci da tutto questo, da questo sviluppo del pensiero che non è stato altro che una trascrizione mistificata dello sviluppo del rapporti di sfruttamento. La ragione ha costruito la sua analitica, dentro la quale lo studio dell’esperienza ed il riferimento al reale sono stati di volta in volta depurati o distrutti. La logica ha finto di eliminare ogni finzione estranea alla specificità del suo proprio cammino. Ma con ciò si è isolata dalla vita - meglio, è servita a mistificare il senso della vita. Qui ora ci ritroviamo dinnanzi ad una spaventosa crisi di questo cammino. L’analitica trascendentale della vita ha fatto cilecca, è entrata in crisi, talora s’è fatta prendere da eccessi paranoici. Come porre, dentro le condizioni di questa crisi - non al di fuori, non al di là di questa crisi ma, lo ripeto, dentro questa crisi - come porre le condizioni di una riconquista dell’esperienza? E’ inutile qui ricordare come Kant abbia posto con forza questo medesimo problema, per la prima volta nel corso dello sviluppo del pensiero occidentale: quali sono le condizioni di pensabilità dell’esistente, qual’è la forma nella quale il mondo della vita può essere percepito? E’ inutile anche ricordare che in Kant erano presenti, come sempre nella grandezza degli inizi, le varie risposte che a questo interrogativo
Un terzo elemento è caratteristico della nostra percezione del mondo, oltre a quelli già detti, della percezione comunicativa e della consapevolezza della sussunzione produttiva. Questo terzo elemento è proprio dell’esperienza che conduciamo dentro questi livelli critici. Vale a dire che se l’indifferenza è la caratteristica della situazione, se la tautologia è la chiave di volta del sistema comunicativo, pure tutto questo non può funzionare quando emergono su questi terreni i problemi della scelta e della decisione etiche. Vale a dire che lo posso ben muovermi nella pura circolarità delle esperienze che mi sono proposte fino a quando non mi trovo dinnanzi alla necessità della scelta, vale a dire alla necessità di mettere in atto le determinazioni del mio volere. Non è, questa, la ripresa di una nota e prometeica rivendicazione dell’esistenza - stavo dicendo rivendicazione << esistenziale >> dell’esistenza! Non lo è perché qui questa contraddizione non è una rottura, non è un << atto puro >> e cioè un’incisione che riqualifica e dà senso all’indifferenza del contesto analitico questa percezione è solo un arricchimento del quadro fin qui descritto. Vale a dire che l’insensatezza del rapporto fra logica tautologica, comunicazione circolare e contesto produttivo rivela, con l’indifferenza del rapporto, la precarietà del rapporto stesso. Questo emergere della volontà che chiede senso per l’esistenza, non concede, né forma il senso dell’esistenza. La volontà non è creativa - si trova messa in scacco a fronte dell’indifferenza dei
Siamo così al centro della definizione di questo mondo dell’esperienza. In esso si incrociano a globalità della produzione, l’insensatezza della comunicazione e l’assoluta contingenza dell’agire. E’ questo cammino una specie di crescere delle condizioni dentro le quali il nostro problema, e cioè il problema del senso dell’esperienza, viene ponendosi. La mia tesi è che non sia possibile
Tre elementi dunque, in questa crisi dell’epistemologia moderna, insieme cause ed effetti di questa. Tre elementi che si incrociano e che si nutrono a vicenda. Il problema sarà dunque quello di vedere quale sia il punto più debole di questa crisi e come sia possibile definire, oltre le condizioni di un’estetica trascendentale, di un’esperienza portata a questo livello di maturazione storica, la fondazione di un progetto epistemologico globale.
2. Rompicapi dello spirito. Se seguissimo una di quelle vie che si raccolgono nella grande categoria filosofica del << ritorno a Kant >>, giunti a questo punto della nostra indagine cercheremo comunque di forzare, dentro l’indifferenza nella quale si configura il mondo della vita, le sue dimensioni, i suoi orizzonti - cercheremo cioè di identificare limiti dell’indifferenza e di ricostruire le possibilità di un’analitica trascendentale. Si badi bene: il fatto di escludere una fondazione logica dell’epistemologia non toglie la possibilità di organizzare un’analitica critica della ragion pratica. Nel momento più importante dello sviluppo del neokantismo, Windelband e Rickert seguirono questa via contro la linea di esasperazione del formalismo della ragion pura, perseguita da Cohen e Natorp. No, qui si tratta di escludere comunque un progetto analitico, foss’anche riguardoso della densità di caratterizzazioni etiche che il mondo della vita rivela. D’altra parte è proprio quando si approfondisce l’orizzonte dell’estetica trascendentale, vale a dire il campo dell’esperienza, nel tentativo di produrre un orizzonte interno di mediazione e/o di costituzione - è proprio allora che il cammino dell’analitica si mostra impercorribile e che la ricerca si rivela prigioniera di una serie di rompicapi insolubili. Per rompicapo intendo un limite essenziale del linguaggio che uso, l’impossibilità di fondare il concetto che esprimo e l’imbroglio di ogni processo di verifica cui io possa sottoporre il rapporto linguaggio-concetto-realtà. Ora, assumendo le caratteristiche del mondo della vita che abbiamo sottolineato, tentando per ipotesi di costruire un’analitica trascendentale a partire da quelle condizioni, mi trovo, davanti ad almeno tre rompicapi fondamentali. Di nuovo insisto: non si tratta semplicemente di singoli punti del ragionamento che emergono in forma contraddittoria bensì di contraddizioni irresolubili che partecipano dell’intero meccanismo concettuale che regge ogni tentativo di costruzione di un’analitica della ragione-logica
Il primo rompicapo è quello che si può chiamare del comando o della misura. Esso può essere espresso in questi termini: quando mi trovo in un universo completamente sussunto, quando rapporti che si stendono fra soggetti-oggetti di questo universo, frazioni e produzioni, non posseggono misura possibile, allora è solo una sovradeterminazione quella che può rendere senso, e un qualche ordine, a questo universo. Ma, come abbiamo visto e come meglio vedremo andando avanti, se è vero che a mancanza di misura di questo mondo esprime la radicale contingenza di tutti gli elementi che lo compongono, se è vero che questa equivalenza dei soggetti contingenti si riferisce all’estremo apprezzamento dei limiti dell’essere, cioè alla scelta fra esistenza e non esistenza collettiva, è chiaro che la sovradeterminazione non potrà darsi in termini risolubili dentro un processo di verifica del senso logico (o etico) della proposizione, e quindi verso una determinazione di significati reali. La relazione di potere è qui dunque statica - allude e tende alla nullità. Rivediamo il discorso da un altro punto di vista. Se l’orizzonte del mondo della vita è completamente lineare, se ogni sovradeterminazione risulterà perciò contraddittoria, può ben darsi che la relazione di potere possa essere definita in termini appunto relazionali. Vale a dire che, come fanno i matematici che tentano di definire la potenza naturale numerica come limite di serie equipollenti, anche il concetto di potere - cioè la misura e la discriminazione degli eventi sociali - potrebbe essere definito non come sovradeterminazione ma come limite geometrico di serie, volontà, atti formalmente equipollenti. Tale è ad esempio il meccanismo che conduce alla definizione della << Grundnorm >> nel pensiero di Hans Kelsen. Più che di sovradeterminazione si dovrebbe in questo caso allora parlare di << determinazione della determinazione >> - come di un processo cumulativo che costituisce man mano un referente decisivo. Ma anche questa ipotesi non regge il peso dell’assoluta contingenza. Certo, lo schema aperto che sta alla base di questa definizione, ci aiuta a comprendere la realtà del contesto etico nel quale ci muoviamo - ma esso non risolve il rompicapo né può rendere efficace un concetto di potere a questo livello. Così ci troviamo nell’assoluta impossibilità di definire cosa sia << l’uno >> sull’orizzonte etico e nel quadro
Se il primo rompicapo riguarda il problema << dell’uno >>, ovvero il problema del potere, il secondo rompicapo cui ci troviamo confrontati riguarda il problema dell’<< altro >>, e cioè di tutto ciò che si oppone all’uno, della moltitudine che si oppone al potere. Ora, nella tradizionale teoria costituzionale, ed anche nella teoria economica, a differenza è che, come per i soggetti costituenti nella teoria politica, il concetto di moltitudine è rotto — nella rozza solidità dell’insieme che rappresenta - e i suoi materiali sono condotti a medietà. Per medietà s’intende una dimensione di valore che unifica in termini equipollenti le molte unità che costituiscono << l’ altro >> (che può essere chiamato il popolo, la classe, la forza-lavoro… ). La forzatura che viene operata per ridurre la molteplicità alla medietà, l’importanza che in questo caso assume il concetto di valore (sia esso produttivo, etico o politico) hanno indubbiamente un ruolo fondamentale nella riqualificazione dell’orizzonte del mondo della vita. Non perciò tuttavia questo metodo risulta conclusivo. Infatti anche in questo caso ci ritrova di fronte ad un imbroglio insolubile: la mediazione è qui imposta nella forma di una sorta di sottodeterminazione del valore. Ma, non diversamente da quanto avviene nella sovradeterminazione del potere, così questa sottodeterminazione del valore si scontra radicalmente con la contingenza dei soggetti. E la relazione non ha in tal modo la possibilità di riportare il senso al significato. Come nel caso del primo rompicapo, anche in questo caso abbiamo una forma subordinata di approccio al problema: neppure essa conduce, tuttavia, alla soluzione del rompicapo medietà / moltitudine. In che cosa consiste questa seconda redazione del problema? Consiste nel porre il rapporto fra le singole soggettività non in termini di mediazione (di sottodeterminazione) bensì in termini di composizione (di interdeterminazione). E chiaro qual’è il vantaggio di questa posizione: essa sembra costruire il soggetto come cumulo di determinazioni specifiche,
Se ora, prima di trascorrere all’analisi del terzo rompicapo, guardiamo quanto residua dalla definizione dei primi due, sembra che alcuni risultati importanti siano stati definiti. Non solo quelli già segnalati (e cioè, sia attraverso il primo che il secondo rompicapo, l’approfondimento della figura lineare dell’orizzonte del mondo della vita) ma soprattutto la critica di ogni caratteristica strutturalistica nella concezione del valore. Intendo dire che la teoria del valore, la si assuma in maniera oggettivistica, oppure in maniera soggettivistica, la si prenda dentro la prospettiva del comando oppure la si ricostruisca in termini di composizione - comunque rappresenta una struttura rigida che impedisce un processo di pensiero che rompe con l’analitica trascendentale. Per dirla altrimenti: la teoria del valore, nelle sue diverse dimensioni e nelle sue differenti applicazioni, è la forma più alla nella quale si presenti l’analitica trascendentale. Ed è appunto da questo punto di vista, e dentro l’apprezzamento di questi rompicapi, che noi cogliamo l’inadeguatezza di tutti i concetti che comunque alle teorie del valore si riferiscono (e, fra questi, quello di dittatura e di democrazia, quello di sviluppo e di crisi) - inadeguatezza di tutti questi concetti ad esprimere la radicale contingenza dell’essere. Il terzo rompicapo sta nel coniugare il rompicapo primo (o del comando) con il rompicapo secondo (o vero della costituzione). Questo rompicapo può dirsi [dirci] rompicapo della rivoluzione. Rivoluzione è la contraddizione che si apre fra costituzione del comando e libertà della moltitudine. La soluzione di questo rompicapo si è voluta spesso costruire sulla base dell’apprezzamento del dinamismo particolare della rivoluzione. La rivoluzione, infatti,
Ora, a me sembra che ogniqualvolta, a partire dall’esperienza, si tenta di risalire e di definire delle categorie analitiche che strutturino l’andar oltre il livello empirico ed i significati immediati del mondo della vita, - bene, in ognuno di questi casi, si resta prigionieri nella rete dei rompicapi. Questo non significa che il livello dell’esperienza non debba essere superato, questo non significa che i grandi fenomeni della comunità umana, della sua organizzazione, della sua rivoluzione, non debbano essere presi in conto anche secondo le leggi generali che a questi universi presiedono. Quello che i rompicapi ci rivelano, non conduce all’inesistenza dei fenomeni, mostra bensì l’impossibilità di una loro spiegazione dal punto di vista della ragion pura. E non solo di astratta e impotente spiegazione si tratta: quando ci si muove sulla base dell’egemonia e dell’esclusività del Logos, si perviene
3. Terrore e contingenza. Per contingenza intendo il fatto che l’essere possa essere e/o possa non essere - effettivamente. Ovvero l’essere nella sua totalità. Il pensiero classico, nel considerare la contingenza, non l’ha mai strappata al particolare. Le due coppie, universale e particolare, necessario e contingente, stabilivano fra loro un rapporto univoco. Il necessario con l’universale, il contingente con il particolare. Qui noi viviamo in una situazione nella quale per a prima volta l’essere intero può essere distrutto. L’universalità dell’essere può praticamente essere messa in dubbio. L’essere può essere distrutto. Se ora, a partire da questa prima immediata constatazione, ritorniamo a quanto detto nei primi approcci di questo lavoro, possiamo cominciare a meglio comprendere la specificità della condizione metafisica nella quale siamo inseriti. Vale a dire che il massimo grado di astrazione dell’essere che abbiamo registrato, e la sua indeterminatezza, si colorano qui di una determinazione pratica che ne sconvolge interamente la definizione. Dal quadro generale, astratto, indeterminato, indifferente, non può uscire una determinazione logica: esce solo una determinazione etica. Perché quel quadro è appunto contingente, e la contingenza è in questo caso vera e propria precarietà dell’essere, condizione di negatività che in generale ed individualmente subiamo. Un tempo si diceva che l’essere che la sua compiutezza che la sua fatticità non potevano essere disfatte. L’essere insomma era il fondo stabile della nostra esistenza e tutto all’essere poteva ritornare, così come dall’essere si era staccato. Ma ora l’essere può essere disfatto. Questo disfacimento non è una legge fisica ma una possibilità storica, - può essere la conseguenza di un atto. L’essere può essere distrutto da un soggetto: non questa o quella
Con ciò siamo davanti ad un’inversione epocale del senso umano della vita. E chiaro che, se ci poniamo il problema di una analitica del conoscere e della sua crisi, non possiamo più porcelo nei termini di una epistemologia tradizionale. Poiché infatti l’oggetto stesso del nostro rapporto conoscitivo può scomparire e comunque è sottoposto ad una congiuntura radicale che ne impedisce un apprezzamento statico. Ogni apprensione del reale non può dunque, in questo momento, che porsi su quel punto dove la volontà e la conoscenza pratica percepiscono la possibilità dell’essere di essere e di non essere, di essere disfatto, ma anche e soprattutto di poter essere ricostruito. Ma di questo più avanti. Torniamo al filo del nostro discorso. Abbiamo inizialmente osservato la generale indifferenza del quadro ontologico nel quale siamo inseriti. Abbiamo poi identificato alcuni grossi rompicapi, che impediscono ogni nostra logica, in termini tradizionali, da quell’indifferenza. Il problema della determinazione, il problema scelta, il destino del conoscere filosofico, sono in dubbio dentro quella situazione. Ora, noi avvertiamo che la massima astrazione dell’essere è la sua totale, radicale, definitiva, resa alla contingenza: con ciò noi comprendiamo l’essere come essere etico. Ma quando raggiungiamo questa coscienza, noi la raggiungiamo dentro le articolazioni dei rompicapi analizzati. Se infatti logicamente le alternative dell’uno e dei molti, della medietà e della moltitudine, della potenza e del potere, non riescono ad essere logicamente superate, pure esse per prime alludono ad un contesto etico nel quale ogni processo fenomenologico si conclude: sicché la scoperta della contingenza radicale è il coronamento di quelle prime annotazioni e il complemento formale del loro presentarsi al nostro spirito. Ma la scoperta della contingenza non è semplicemente una nuova chiave per riuscire ad affermare che il processo conoscitivo
Intendo dire che, attraverso a scoperta della contingenza noi poniamo in termini radicali il problema del fondamento: ma di nuovo in maniera completamente irriducibile alla tradizione, perché qui il fondamento non è il punto a partire dal quale il mondo si spiega - al contrario, questo fondamento è il punto a partire dal quale si dà il massimo allargarsi della dimensione della possibilità. Una possibilità tragica, un’eventualità che la nostra ragione e il nostro cuore non riescono talora a sopportare, - la distruzione, appunto dell’essere, una morte tanto generalizzata da non possedere ripetizione, - la fine, insomma, del tempo. Il fondamento non è quindi il più semplice degli elementi nei quali possiamo scomporre il linguaggio etico e logico, quasi il seme da cui sorgono gli alberi della vita: no, il fondamento è qui una cellula che può scindersi nella vita e nella morte, l’elemento semplicissimo dell’affermazione, della negazione, dell’essere e del non essere. Qui la dialettica non è evidente, anzi, non ha davvero nulla a che fare con il reale. In effetti qui esiste una regola esclusiva: o c’è l’essere o c’è il non essere. Tutta la logica tradizionale e tutta la metafisica classica, entrambe basate sulla partecipazione e su una qualche commistione dell’essere e del non essere, qui vengono meno. La dimensione metafisica ci si presenta come dimensione antagonista, la crisi è l’assoluto. Eccoci dunque a spiegare di nuovo come i rompicapi non siano altro che delle superficiali modalità rispetto alla profonda essenza di un essere per la prima volta portato alla potenza del non esistere. Nella fenomenologia del mondo contemporaneo questa situazione metafisica ci è presentata come terrore. La contingenza è il terrore. Vale a dire che la sovradeterminazione come linea di soluzione del rompicapi, come analitica della ragione che si oppone alla radicalità delle determinazioni empiriche, si presenta come terrore. La soluzione trascendentale o formalistica dei rompicapi
Non è la prima volta nella storia del pensiero occidentale che una situazione di crisi, dinnanzi all’immediatezza dei contrasti dialettici ed all’impossibilità di raggiungere altrimenti una sintesi, cerca una soluzione sovradeterminata dal terrore. Le pagine del << Leviatano >> costituiscono un punto di riferimento costante dell’esperienza metafisica. E quanto più la situazione diventa indifferente, tanto più il mondo delle immagini che regolano l’esistenza degli uomini è sottoposto a reazioni d’ordine, ad operazioni di semplificazione esemplare e terroristica: il capro espiatorio, la sostituzione del reale con l’immagine, la necessità metafisica del potere, queste favole vengono raccontate da sempre e da sempre funzionano come terroristica medicina alle malattie dell’umanità. Ma ora noi ci troviamo di fronte ad una determinazione del terrore che non tocca il mondo delle immagini, ma investe quello reale. Non è un capro espiatorio attraverso il quale, pur rudemente, l’essere possa essere risanato - non è questo che ci viene preparato, non è la vecchia morale, la potenza del bene e quella del male che accrescono o diminuiscono l’essere e che talora debbono essere esemplificate << in corpore vili >> - non è qui in gioco una concezione anche terroristica della pena come restaurazione dell’essere in riparazione di una colpa che l’essere aveva offeso: niente di tutto questo, - qui il terrore tocca la radice stessa dell’essere. Il terrore è tanto assoluto quanto è assoluta la contingenza dell’essere. Il terrore non tocca il regno delle immagini, dell’analitica, ma quello del reale, dei significati. Vige nel regno dell’estetica trascendentale. Come sono poveri tutti i tentativi di rinnovare i fasti idealistici dell’analitica trascendentale in questa situazione! Si pensi al contrario a quel passaggio, già da noi ricordato, a quel passaggio centrale nella storia del pensiero contemporaneo, che è registrato nel << Primo abozzò di programma sistematico dell’idealismo tedesco >> il senso della crisi era inteso nella sua radicalità e si voleva, a fronte della crisi dell’individuo e dei lumi, identificare il passaggio che dall’estetica trascendentale potesse direttamente condurre ad una dialettica dell’illusione vera. Ebbene, quel passaggio per quanto sproporzionato nelle dimensioni nelle quali oggi la radicale contingenza dell’essere si presenta, pure è anche
La determinazione esistenziale che segue la scoperta della radicale contingenza dell’essere ci si presenta ora con due caratteristiche. La prima riguarda la posizione che l’analisi filosofica assume nell’affrontare il tema dell’essere, la seconda riguarda la natura dell’essere. Ma sia la prima che la seconda di queste caratteristiche sono legate, in maniera inscindibile, nell’estetica trascendentale che qui viene definendosi. Vale a dire che non sarebbe possibile concepire il restringersi della ragione al campo dell’estetica trascendentale Se, contemporaneamente, la ragione non fosse enormemente potenziata dall’apprezzamento concreto della nuova potenza metafisica, che è appunto, insieme tragica ed etica. L’alternativa che l’essere presenta, nella sua assolutezza, nella sua esclusività, implica la definizione pratica della ragione. Questo senso della radicale contingenza dell’essere ci pone in una situazione Cartesian, - non astratta tuttavia bensì eticamente motivata. Come è difficile esprimere tutto questo nel vecchio linguaggio della filosofia: com’è difficile dire dell’eticità dell’essere e di questa metafisica precarietà che tocca il livello dell’estetica trascendentale in quanto tale! La metafisica si è sempre organizzata in un sistema di livelli per cui il superiore illuminava l’inferiore, o in un sistema di incastri, quasi un grande gioco di bambole russe, dove l’oggetto più grande conteneva il più piccolo e, per così dire, lo spiegava. Qui il linguaggio antico e specialistico della filosofia fa difetto, ed aveva ragione Foucault quando, rinnovando il metodo nietzschiano della << Genealogia della morale >>, rinnova anche le regole sintattiche del linguaggio della filosofia morale. Io vorrei qui tentare una simile via per quanto riguarda il linguaggio della metafisica. Ora, siamo in una situazione Cartesian, ma non individuale, come si è detto, bensì collettiva e astratta, eticamente rilevante, - con ogni probabilità qualificata in termini antagonisti. Deve essere chiaro che qui noi dobbiamo risalire, trattenendoli dentro il livello dell’estetica trascendentale, a quei soggetti della descrizione fenomenologica che abbiamo inizialmente colto. L’alternativa
Se dunque la definizione dell’essere come assoluta contingenza ci ha permesso di cogliere le condizioni per così dire negative di un’estetica trascendentale, ora probabilmente l’approfondimento del discorso potrà permetterci di toccare alcune condizioni positive di questo medesimo problema. Abbiamo già sottolineato come per contingenza assoluta s’intenda la possibilità della distruzione radicale dell’essere, - e come l’antico principio << Factum infectum fieri nequit >> venga in tal modo messo in crisi. Ma nell’approfondire la potenza negativa di questa percezione, non possiamo né dobbiamo dimenticare l’altro aspetto inerente a questa strutturale determinazione: vale a dire che, se la contingenza assoluta mostra l’estrema possibilità di distruzione, di perciò stesso essa indica una radicale possibilità di costruzione. E’ come se fossimo messi dinnanzi ai materiali semplici che compongono l’essere, in una situazione limite di possibilità costruttiva. Nella filosofia, più volte questi principi di costruttività sono stati proposti: e forse la forma eminente nella quale il principio si è espresso, è quel << Verum ipsum Factum >> che dobbiamo a Gianbattista Vico. Risparmio qui, a me e al lettore la farraginosa ermeneutica delle fonti e delle interpretazioni: se il principio sia idealistico o materialistico, se assoluto o relativo, se spiritualistico e creativo o semplicemente filologico e costitutivo,
Lo abbiamo già accennato, ma ora, continuando nella ricerca, vale la pena di sottolinearlo più ampiamente. Dentro questa radicalità fondativa della contingenza assoluta noi non verifichiamo un punto catastrofico bensì una tendenza ontologica. Se pensiamo il punto catastrofico, se pensiamo il terrore, è solo perché questi poteri costituiscono delle spie su un profondo corso dell’essere, e cioè sul rapporto fra serie delle azioni umane e loro cumularsi complessivo. Il mondo è questo cumulo, è questa complessità. La materialità che costituisce il passato del mondo viene così mano a mano riassunta nella tendenza della storia. La natura diviene (sempre più) storia. Anche in questo caso è l’attuale possibilità della sua distruzione che ce lo rivela, poiché la distruzione mostra la natura, il mondo naturale, come contingenza e quindi come qualcosa che nella misura stessa in cui può essere distrutta, può essere conservata - ma conservare significa qui ormai produrre, riprodurre, sviluppare... La natura diviene una protesi dell’uomo. Sempre di più, non è dell’uomo la condizione ma ne è piuttosto la conclusione. E questo vale non semplicemente per la natura, ma per la totalità fenomenologica, per quella enorme quantità di beni, di infrastrutture, di condizioni materiali che la storia umana ha costruito e che ora, su - 58 - questo passaggio epocale (nel quale tutto è sussunto nel capitale e tutto può dunque essere distrutto), è insieme condizione di distruzione o determinazione rinnovata da una potenza d’innovazione. Alla radicale contingenza dell’essere corrisponde così, proprio sul paradosso della mancanza di fondamento, una dinamica continua, tendenziale, totalizzante, - il problema dell’essere vi è implicato e con esso, necessariamente, quello della storia e quello dell’ecologia, quello storico e quello scientifico. E’ chiaro che questa apertura di prospettive e di sublimi orizzonti in qualche modo potrebbe qui lacerare il drammatico ed estremo paradosso della contingenza assoluta, - è chiaro inoltre che questa serie di intuizioni del tutto metafisiche, se da un punto di vista iniziale sono linearmente distese, potrebbe appiattire l’indagine svigorendo l’evidenza del continuo rinnovarsi del problema - al contrario, tutto ciò annulla la percezione fondamentale della contingenza se la natura di questa viene coerentemente e continuamente definita come antagonistica. Voglio dire che quell’elemento di rottura, di contrasto, di antagonismo, che risulta definire la medesima percezione fondamentale dell’essere - come rapporto tra positivo e negativo, tra essere e non essere - che tutto ciò permane, si prolunga, si ripresenta su ogni punto dello sviluppo della tendenza. Questa determinazione antagonista è qualcosa che partecipa di ogni azione umana, nella misura in cui ogni azione umana contiene una particolare densità, costruttiva o distruttiva dell’essere. Ed è proprio dentro il continuo ridimensionamento del positivo e del negativo, dentro l’infinita serie di rapporti che in questo modo si determinano, è dunque in questo modo che l’individualità, la singolarità umane vengono definendosi. Nella filosofia seicentesca, quando l’atomismo propone per la prima volta l’alternativa tra distruzione e creazione dentro la prospettiva del meccanicismo, quest’idea dell’individuazione antagonista prende corpo. Oggi, quando il principio del rapporto fra distruzione e costruzione è strappato all’intelligenza aurorale dell’atomismo e condotto alla sperimentazione etica, sembra dunque che quel criterio di individualismo possa essere ripreso. Ma di ciò più avanti. Qui, prima di ritornare sul criterio di individuazione, val la pena di sottolineare come le forti intuizioni che il pensiero moderno alle sue origini aveva sviluppato, sul terreno dell’estetica - 59 -
- 60 - idiota la rivendicazione della laicità, contro la religione, se quella rivendicazione nasconde che la nostra determinazione nasce sul ritmo della distruzione, è insomma una condizione tragica per eccellenza. Alla religione non si oppone il laicismo ma si può solo opporre un’altra religione - quella del materialismo, quella di chi sa che vivere o morire è problema suo. Eccoci dunque in una situazione nella quale qualsiasi tipo di fuga dai problemi dell’essere ci diviene impossibile. La volontà amaramente si confronta con se stessa nell’ambito di questa contingenza - e anche la ragione guarda all’opposizione che la costituisce, con fredda ma non meno timorosa attenzione. Ciò detto, v’è di contro e contemporaneamente quell’aspetto dell’essere nel quale risiede la possibilità di ricostruzione, di una ricostruzione radicale e profonda, - v’è dunque quest’aspetto dell’essere cui tentare di adeguare il cammino metafisico. Questo tentativo di adeguamento deve essere operoso - lo dico con qualche distacco, per distinguere le condizioni nelle quali oggi un discorso sulla speranza è possibile, dall’emergenza che questo tema ebbe nell’ambito della filosofia contemporanea fra le due guerre. Voglio dire che << Das Prinzip Hoffnung >>, il principio della speranza, non può qui essere concepito, come invece lo fu da Bloch e da Benjamin, come blitz irrazionale che si sottraeva alla crisi, all’esaurimento delle condizioni della rivoluzione - qui la speranza nasce dopo Auschwitz e Hiroshima, qui nessuno fugge più nulla. Qui speranza, dunque, è la stessa cosa dell’operare, e un senso della mancanza di fondamento talmente profondo (e che ci teniamo sulle spalle), è la sorpresa del vivere quotidiano - la nostra speranza non ci fa attendere nulla se non il miracolo della nostra quotidiana riproduzione. Ma tutto questo è una forza enorme, tutto questo contiene il principio etico dell’estetica trascendentale. Dagli anni `30 a noi è cambiato solo questo - ed è enorme e cioè che l’approfondimento del concetto di crisi è pervenuto all’essere, ha strappato i veli letterari e filosofici che lo mostravano come risultato intellettuale dell’analitica, per diventare una cosa. Una cosa reale, che si tocca, un incubo che si vive, un terrore che si subisce. E’ questa materialità della crisi e dell’essere nella crisi che la speranza interpreta. La chiamiamo speranza perché non sappiamo come altrimenti chiamarla; e qualcuno potrebbe ironizzare, e dire la desuetudine di questo termine, - 61 - senza tuttavia per questo scandalizzarci. Prendiamola dunque questa parola come un neologismo per identificare quel rapporto operoso che si stende tra la condizione negativa e catastrofica e quella positiva e creativa dell’essere. Solo su questo terreno, dentro cioè l’antagonismo oggettivo che l’estetica trascendentale rivela, dentro il presentarsi con polarità contrarie dell’essere, dentro l’eticità del nesso che tutto questo collega ma che nello stesso tempo tende in maniera insopportabile - qui il processo di individuazione si dà. Sarebbe bello - altrove lo faremo - riportare a questo proposito la nostra memoria al << Libro di Giobbe >>, dove appunto il problema metafisico dell antagonismo, della colpa e della retribuzione materiale, pervengono poeticamente ad una fantastica quanto materialmente determinata definizione dell’individuo. Ora, è appunto questo il terreno sul quale, rompendo con l’indifferenza dell’orizzonte postmoderno, del capitale sussunto, della comunicazione onnicomprensiva ed equivalente, la soggettività si pone. Credo che il processo logico attraverso il quale la determinazione complessiva si realizza, sia qui ormai chiaro. Ma non si tratta, in primo luogo, di rompere o di interrompere il meccanismo circolare che costituisce il tessuto fenomenologico del mondo. Si tratta invece di considerarne la condizione metafisica, e cioè quella destinazione alla distruzione che esso ha in se stesso. In secondo luogo, questa contingenza rivelata, si mostra come paradosso: quindi essa si apre ad un’alternativa completamente etica, l’alternativa dell’essere e del non essere. Questa alternativa qualifica in termini tendenziali l’intero universo dell’esistente. Noi la percepiamo ed è collocandoci nell’intreccio delle pulsioni negative e positive che da questa tendenza sono prodotte, che determiniamo la nostra individualità. L’orizzonte analitico negava ogni individualità, meglio, confondeva la singolarità in una circuitazione continua ed equipollente. Quest’orizzonte era insuperabile, era un labirinto logico, una Babilonia linguistica ed una sodoma morale. E’ solo il senso della distruzione, di questo mondo logicamente ed analiticamente corrotto ma anche, con esso, dell’essere stesso, è dunque solo questa distruzione che ci rimette davanti all’essere. Un essere fondamentale perché lo si può distruggere o ricostruire, un fondamento che è contingenza assoluta. E la singolarità viene determinata - 62 -
|