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ANTONIO NEGRI
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Indice
PARTE II. PROLEGOMENI DI UN’ONTOLOGIA DELLA SOVVERSIONE pp. 27-154 Introduzione – La rivoluzione come preambolo pp. 29-39 Capitolo Primo. No
future, ossia sull’essenza etica dell’epistemologia pp.
41-74 Capitolo Secondo.
Metus-Seperstitio: ossia sulla produzione di soggettività nel
capitalismo maturo. pp. 75-111 Capitolo Terzo. Compact
– per una dialettica trascendentale del potere pp.
113-154
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PARTE I
Prefazione
Karl Marx, Il Capitale: Libro I, Capitolo VI Inedito, trad. it. Firenze, 1969, pp. 53-54: << A questi cambiamenti, tuttavia, non si è finora accompagnata una trasformazione sostanziale del modo d’essere vero e proprio del processo lavorativo, del processo di produzione reale. Al contrario, è nella natura delle cose che la sottomissione (sussunzione) del processo lavorativo al capitale si verifichi per ora sulla base di un processo lavorativo ad esso preesistente, configuratosi sulla base di antichi e diversi processi produttivi e di altre e diverse condizioni della produzione: il capitale si sottomette un processo lavorativo dato, esistente - per esempio, il lavoro artigianale o il lavoro agricolo corrispondente alla piccola economia contadina autonoma, - e le modificazioni che possono tuttavia verificarsi all’interno del processo lavorativo, non appena esso soggiaccia al comando del capitale, possono essere soltanto conseguenze graduali della già avvenuta sottomissione dei processi lavorativi dati, tradizionali, al capitale. Il fatto che l’intensità del lavoro aumenti, che la durata del processo lavorativo si prolunghi, che il lavoro si svolga più ordinato e continuo sotto l’occhio interessato del capitalista ecc., questo fatto non cambia in sé e per sé il carattere del processo lavorativo reale, del modo vero e proprio del lavoro. Tutto ciò contrasta decisamente con il modo di produzione specificamente capitalistico (lavoro su grande scala ecc.) che, come abbiamo visto, si sviluppa man mano che la produzione capitalistica progredisce; modo di produzione che, insieme al rapporti fra i diversi agenti della produzione, rivoluziona anche il modo d’essere del lavoro e la forma a reale dell’intero processo lavorativo. - 9 - Appunto in contrapposto al modo di produzione specificamente capitalistico noi chiamiamo sussunzione formale del lavoro al capitale la sottomissione da parte di quest’ultimo del processo lavorativo come l’abbiamo esaminato finora, cioè come sottomissione di un modo di lavoro già sviluppato prima che il rapporto capitalistico sorga. Le due forme hanno in comune il rapporto capitalistico come rapporto di coercizione inteso a spremere il plusvalore dal lavoro salariato, dapprima solo prolungando la durata del tempo di lavoro-rapporto che non poggia su alcun legame di signoria e dipendenza personale, ma nasce unicamente dalla diversificazione delle funzioni economiche. Mentre però il modo di produzione specificamente capitalistico conosce anche altri modi di estorsione di pluslavoro e plusvalore, invece, sulla base di un modo di produzione esistente, quindi di uno sviluppo dato della forza produttiva del lavoro e di un modo di lavoro corrispondente a questa forza produttiva, il plusvalore può essere prodotto solo prolungando la durata del tempo di lavoro: sotto la forma del plusvalore assoluto. E’ a questa forma di produzione del plusvalore che corrisponde la sottomissione formale del lavoro al capitale >>. Pp. 57-58: << L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine, e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente (solo questo lavoro socializzato è infatti in grado di applicare i prodotti generali dell’evoluzione umana, per esempio le matematiche, al processo di produzione immediato, allo stesso modo d’altra parte che l’intero sviluppo di queste scienze presuppone un dato livello del processo di produzione materiale), questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza - questo prodotto generale dello sviluppo sociale - processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché - 10 - come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure del lavoratori cooperanti nel processo di produzione. Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale. E’ d’altra parte soltanto quit, che il significato storico della produzione capitalistica appare nella sua evidenza specifica, proprio attraverso la trasformazione dello stesso processo di produzione immediato e lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro. Si è già dimostrato (capitolo III) che non solo nella << rappresentazione >> ma nella << realtà >>, l’aspetto sociale, << la socialità >> ecc., del lavoro si erge di fronte all’operaio come elemento non soltanto estraneo ma ostile e antagonistico, apparendo oggettivato e personificato nel capitale. Allo stesso modo che la produzione del plusvalore assoluto può essere considerata come l’espressione materiale della sottomissione formale del lavoro al capitale, la produzione del plusvalore relativo può considerarsi come l’espressione della sottomissione reale del lavoro al capitale. >> Pp.68-69: << Sottomissione reale del lavoro al capitale. Permane qui la caratteristica generale della sottomissione formale, cioè la diretta subordinazione del processo lavorativo, comunque sia esercitato dal punto di vista tecnologico, al capitale. Ma su questa base si erge un modo di produzione tecnologicamente (e non solo tecnologicamente) specifico, che modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni - il modo di produzione capitalistico. Solo quando esso appare ha luogo la sottomissione reale al capitale. >> << La sottomissione reale del lavoro al capitale si sviluppa in tutte le forme che generano, a differenza del plusvalore assoluto, plusvalore relativo. Alla sottomissione reale del lavoro al capitale si accompagna una rivoluzione completa (che prosegue e si ripete costantemente) nel modo stesso di produzione, nella produttività del lavoro, e nel rapporto fra capitalisti e operai. La sottomissione reale del lavoro al capitale va di pari passo - 11 - con le trasformazioni nel processo produttivo che abbiamo già illustrate: sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e, grazie al lavoro su grande scala, applicazione della scienza e del macchinismo alla produzione immediata. Da una parte, il modo di produzione capitalistico, che ora appare veramente come un modo di produzione sui generis, dà alla produzione materiale una forma diversa; dall’altra, questa variazione della forma materiale costituisce la base per lo sviluppo del rapporto capitalistico, la cui forma adeguata corrisponde perciò a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro >>. P. 74: << Primo: Poiché, con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti - chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico ecc., chi come sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto -, un numero crescente di funzioni della forza-lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro produttivo, e un numero crescente di persone che lo eseguiscono nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo processo di produzione e valorizzazione. Se si considera quel lavoratore collettivo che è a fabbrica, la sua attività combinata si realizza materialmente e in modo diretto in un prodotto totale, che è nello stesso tempo una massa totale di merci dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al lavoro manuale in senso proprio. Ma, d’altra parte, l’attività di questa forza-lavoro collettiva è il suo consumo produttivo immediato da parte del capitale, è autovalorizzazione del capitale, produzione immediata del plusvalore; quindi, come vedremo meglio in seguito, trasformazione immediata dello stesso in capitale. >> Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, trad. il. Torino, 1976, vol. I, p. 722: << Come, con - 12 - lo sviluppo della grande industria, la base su cui essa si fonda, ossia l’appropriazione di tempo di lavoro altrui - cessa di costituire o di creare la ricchezza, così, con esso il lavoro immediato cessa di essere, come tale, la base della produzione, poiché per un verso viene trasformato in un’attività prevalentemente di sorveglianza e regolatrice; ma poi anche perché il prodotto cessa di essere il prodotto del lavoro isolato immediato, ed è piuttosto la combinazione dell’attività sociale a presentarsi come produttore. Nello scambio immediato il lavoro isolato immediato si presenta realizzato in un prodotto particolare o parte di questo prodotto, e il suo carattere sociale comunitaria - ossia il suo carattere di materializzazione del lavoro generale e di soddisfacimento del bisogno generale - è posto soltanto attraverso lo scambio. Per contro, nel processo di produzione della grande industria, come da un lato l’assoggettamento della forze della natura all’intelligenza sociale è il presupposto della forza produttiva del mezzo di lavoro sviluppato a processo automatico, così dall’altro il lavoro del singolo, nella sua esistenza immediata, è posto come lavoro singolo soppresso, ossia come lavoro sociale. Così viene a cadere l’altra base di questo modo di produzione. >> P. 716: << Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro, la quale a sua volta - questa loro poderosa efficacia - non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione >>.
- 13 - per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo del traffico umano). Non è più l’operaio a inserire l’oggetto naturale modificato come termine medio tra sé e l’oggetto; egli inserisce invece il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo tra sé e la natura inorganica di cui si impadronisce. Egli si sposta accanto al processo produttivo invece di esserne l’agente principale. In questa situazione modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale - in breve lo sviluppo dell’individuo sociale, che si presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di lavoro altrui, sul quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il lavoro eccedente della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle potenze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell’antagonismo. Il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la riduzione a un minimo del lavoro necessario della società, a cui poi corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e al mezzi creati per essi tutti. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo (per il fatto) che esso interviene come elemento perturbatore nel processo di riduzione del tempo di lavoro a un minimo, mentre d’altro canto pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro necessario, solo per aumentarlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; pone quindi in misura crescente il lavoro superfluo come condizione - questione di vita e di morte - di quello necessario. Per un -14- verso chiama in vita tutte le potenze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e del traffico sociale, allo scopo di rendere indipendente (relativamente) la creazione della ricchezza del tempo di lavoro in essa impiegata. Per l’altro verso vuole misurare con il tempo di lavoro le gigantesche forze sociali così create, e relegarle nei limiti che sono richiesti per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali - entrambi aspetti diversi dello sviluppo dell’individuo sociale - al capitale si presentano soltanto come mezzi, e per esso sono soltanto mezzi per produrre a partire dalla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni materiali per far saltare in aria questa base. >>
- 15 - del razionalismo occidentale nella maturità capitalistica - sono, ognuno nella sua specificità, sinonimi di << sussunzione reale >>. Ciò detto, va tuttavia sottolineato che, nelle categorie marxiane, è contenuta, assieme alla descrizione della tendenza, la chiave pratica del suo rovesciamento: in ciò le categorie marxiane si distinguono da quelle nietzscheane o freudiane, wittgensteiniane o adorniane, per non parlare, si parva licet, di quelle splengeriane o baudrillardiane. Non il contenuto della descrizione distingue Marx dalla filosofia contemporanea nella definizione del presente, ma il punto di vista: quello della liberazione, quello della soggettività antagonista. Lo voglio procedere su questa direzione del discorso marxiano: qui dunque non chiedo più al lettore di seguirmi sulla base di una constatazione comune - perché in questo caso non di constatazioni si tratta, bensì di scelte. Se vorrà farlo, lo farà a suo rischio. Della fondazione ontologica di una scelta di liberazione tratta comunque, in buona parte, questo libro. Precisiamo un concetto. Si è detto: << fra >> sussunzione formale e sussunzione reale, ma evidentemente si intende come ormai l’accento cada essenzialmente sulla realtà della sottomissione della società al capitale. Di conseguenza, se la modificazione dei modi di produzione è un processo complesso e la tendenza che presiede alla modificazione, è estremamente articolata: pure l’egemonia del modo di produzione capitalistico è ormai totale e le differenze e le resistenze sono caratterizzate da una straordinaria precarietà - insomma, la sussunzione reale è effettuale. Il paradigma del modo di produzione è definitivamente mutato. Il capitalismo ha proceduto fino all’estrema istituzione formale del collettivo. Il lavoro e la produzione sono determinazioni ormai solo sociali: Se ci sono ritardi nello sviluppo complessivo, questi non toccano la sostanza del processo e non ritardano l’attualità del suo compimento. E’ dunque a partire da questa situazione, centralmente definita, che il ragionamento deve muovere. E tenersi strettamente a queste condizioni. Salvo rovesciarle. Poiché la sussunzione reale, della quale lo sviluppo capitalistico virtualmente rivela le definitive condizioni, è - nell’effettualità - un sistema di contraddizioni. Ma queste contraddizioni sono state percorse dal sistema delle macchine ed estremizzate dalla sua logica fino al punto di essere condotte - 16 - ad un’ultima alternativa: quella del comando e dello sfruttamento, appunto, ma spinta al limite del terrore, al ricatto della guerra, fino alla drammatica proposizione dell’alternativa dell’essere e della sua negazione. E’ su questo orlo dell’essere che il ragionamento filosofico e la decisione etica divengono oggi decisivi. E la tragedia che viviamo, dentro questa precarietà dell’essere, attraverso la violenza della nostra reazione morale, potrebbe aprirsi al godimento. * * * I << Prolegomeni ad un’ontologia della sovversione >> costituiscono un primo tentativo di raccogliere in una prospettiva di rottura e di trasformazione radicale la determinatezza delle modificazioni strutturali della produzione e del soggetto produttivo che abbiamo verificato in questo secolo. Lo sono e resto convinto che il più enorme evento di questo secolo sia stata la rivoluzione d’Ottobre. Essa ha cambiato il mondo. Essa ha imposto un’accelerazione straordinaria allo sviluppo capitalistico, - sia nei paesi laddove essa si è affermata, sia nei paesi a più antica vocazione e riuscita industriale. Le oblique e talora perverse risultanze del regime socialista non possono indurci in errore e a rinnegare Lenin perché dopo di lui è venuto Stalin, quanto la rivoluzione francese perché ha prodotto Napoleone. Ma v’è di più: la rivoluzione d’ottobre, contribuendo in maniera straordinaria alla modernizzazione industriale ed alla liberazione politica di tutti popoli, costruendo perciò - direttamente o indirettamente - le condizioni di un mercato mondiale, ed in ogni caso accelerandone la realizzazione, ha attratto nell’area della sussunzione reale ogni formazione storico-produttiva - e tutte le ha integrate e articolate lungo un medesimo e solo processo di sviluppo. Sul livello mondiale una nuova ontologia dell’essere sociale è venuta così formandosi. Lo l’assumo come dato - non mi interessa qui descriverla da un punto di vista sociologico (l’abbiamo già fatto altrove - io e molti altri studiosi - e la nostra tesi sull’ operaio sociale e multinazionale hanno fin qui ricevuto solo delle conferme - altrove approfondirò il discorso), m’interessa invece problematizzare l’ontologia del soggetto produttivo sull’orizzonte del mercato mondiale, mettendola a confronto con le tensioni catastrofiche - 17 - attorno a cui, verticalmente, s’è riorganizzato il potere: potere di vita e di morte, potere nucleare, potere di determinazione del non-essere, - e soprattutto, tentativo del potere di costruire direttamente la soggettività, di togliere il soggetto produttivo all’essere ed alla verità. Per mia parte sono convinto - e tento di dimostrarlo - che la soggettività può opporsi, sul terreno ontologico, alla macchina del potere capitalistico, che può impedire la sua tensione di morte, che può autorganizzarsi e costruire opposizione, ed anche antagonismo, contro il dominio. E qui ci troviamo su uno snodo importante, che vogliamo cercare di chiarire. Dentro l’enorme verticalizzazione del potere, il tema della pace è divenuto essenziale. Esso ci è proposto come ricatto, e ci si minaccia di toglierci, a questo livello della potenza produttiva, con la pace, l’essere, la vita, la riproduzione della specie. La difesa della pace è, a questo punto, il risvolto del dominio. Che cosa vuol dire allora, in questa situazione, formare antagonismo contro il dominio? Che cosa vuol dire rifondare la vita nel rifiuto della minaccia di distruzione dell’essere? Che cos’è oggi la critica dell’economia politica della pace? Rispondere a queste domande è fondare una nuova prassi collettiva, un nuovo diritto e una nuova società. Riconquistare la pace non come fondazione dell’oppressione ma come espressione di libertà, non come incubo di distruzione e necessità del dominio ma come desiderio: costruzione, innovazione, immaginazione e godimento - collettivi - è la grande operazione ontologica del secolo che si chiude. Si badi bene: il corrispettivo formale della possibilità di tutto distruggere, è la potenza materiale di tutto costruire. Ogni tabù cade - la ragione etica, quella potenza che più mettere le mani sull’essere e che solo in quanto lo fà, è storicamente significativa - ora, questa potenza è nella nostra nuova natura e nella nostra ontologica determinazione. Pace è legare la realtà del movimento all’espressione della potenza costruttiva - ai nuovi compiti etici che si aprono sui confini dell’essere, oltre il limite della datità, laddove si scopre che quel potere che può tutto distruggere, bisogna disarmarlo - attraverso quella potenza che può tutto costruire. L’essere soprattutto. -18- Gli scritti raccolti nella III parte e qui globalmente intitolati << fra catastrofe e ricostruzione >>, sono stati redatti lungo gli ultimi anni. In che cosa sia consistita la catastrofe, crediamo sia chiaro - soprattutto al lettore italiano: è la distruzione della continuità lineare della memoria storica della sovversione, è la sconfitta politica di un movimento di massa grande e generoso (quale la storia contemporanea aveva raramente conosciuto, nei paesi capitalistici avanzati). Ma anche che cosa sia la ricostruzione, credo sia possibile oggi intenderlo. E’ la ricostruzione di un comportamento sovversivo, di un nuovo movimento proletario, a partire da una condizione irreversibile della coscienza - il comunismo come preambolo, come alternativa concreta e prassi immediata, la coscienza della natura collettiva della produzione e della riproduzione come nuovo paradigma del sapere, l’immaginazione di nuovi processi di valorizzazione sociale come compito. Noi viviamo in una società archeologica: vi sono dei padroni capitalisti che, come sovrani assoluti, comandano la vita produttiva di milioni di uomini attraverso il pianeta; vi sono altre persone, gestori e proprietari dei media, che, come inquisitori medioevali, posseggono tutti gli strumenti di formazione dell’opinione pubblica; vi sono poi degli individui che possono, fuori da qualsiasi responsabilità personale, scelti - come in altri tempi gli stregoni - per cooptazione, condannare degli uomini alla prigione a vita o trattenerli entro istituzioni totali; ecc. ecc. - vi sono infine due o tre poteri al mondo che, imperialmente, garantiscono questo modo di produzione e di riproduzione della ricchezza e delle coscienze, sovraintendendolo in modo mostruoso - attraverso i1 ricatto nucleare, attraverso la minaccia di distruggere l’essere. Rifiutare tutto questo come si rifiuta quello che è vecchio e marcito - questo non è un compito ma una necessità, una precostituzione ontologica. Non è credibile che il mercato mondiale, e le enormi forza collettive che in esso si muovono, abbiano padroni; non è possibile, meglio, è senz’altro ripugnante il diritto della proprietà e dello sfruttamento. Tanto più se queste aberrazioni sono applicate alla formazione dell’opinione pubblica - qui i cittadini sono imprigionati nel momento in cui dovrebbero democraticamente sviluppare il loro diritto di informazione, di comunicazione e di critica. Archeologiche e odoranti morte e follia, sono poi le - 19 - corporazioni giuridiche, amministrative, politiche dello Stato della sussunzione reale. Ma la morte che hanno nelle membra e nel cuore, esse rovesciano contro il mondo! Rompere con tutto ciò, ricostruire! Lo parlo qui di ricostruzione perché, dopo la crisi dell’ultimo decennio, ovunque ormai, in Europa come nel mondo, il processo rivoluzionario si è rimesso in moto. Con fatica, negli anni scorsi, nei saggi che qui metto insieme, lo abbiamo descritto in questa nuova figura - mano a mano approssimandone sempre di più le caratteristiche. La rivoluzione come preambolo, l’immaginazione al potere, questi sono dunque i poli del processo di ricostruzione, di uscita dalla catastrofe. Su questo bordo dell’essere noi ci troviamo davanti ad una natura umana modificata dallo sviluppo e dalle lotte - anche dalle sconfitte - ad un processo di autovalorizzazione che socialmente ha formato nuove soggettività e ha depositato una grande esperienza del futuro. * * * Mi è capitato, in questi scritti, di utilizzare ampiamente, quando parlo dell’immediatezza dell’esperienza di liberazione, il termine filosofico << estetica trascendentale >>; quando parlo dell’immaginazione e della sua funzione creativa, il termine << dialettica trascendentale >>; quando infine, ed al contrario, parlo della capacità capitalistica di comando attraverso gli strumenti del nuovo dominio e della stessa produzione di soggettività, utilizzo il termine << analitica >>. Ora, poiché temo che non tutti i miei lettori abbiano presente la definizione kantiana di queste categorie della critica, mi permetto qui di seguito di ricordarla (affinché in tal modo venga meglio compreso l’uso di queste categorie e la radicale anomalia che in quest’uso introduco). E’ comunque nel paragrafo 3 della Parte III (<< Per un nuovo schematismo >>) che si discutono alcuni temi kantiani. Emmanuelle Kant, Critica della ragion pura, trad. il., Bari, 1949, vol. I, pp. 66-67: << Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità. Deve esserci una tal scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i principi del pensiero puro e vien [sic] denominata logica trascendentale. - 20 - Nella estetica trascendentale, dunque, noi isoleremo dapprima la sensibilità, separandone tutto ciò che ne pensa coi suoi concetti l’intelletto, affinché non vi resti altro che l’intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da questa ciò che appartiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la intuizione pura e la semplice forma dei fenomeni, che è ciò che la sensibilità può fornire a priori. In questa ricerca si troverà che vi ha due forme pure di intuizione sensibile, come principi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo, del cui esame noi ci occuperemo or ora. >> P. 108: << Analitica trascendentale: questa analitica è la risoluzione di tutta la nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura intellettuale. E qui bisogna por mente ai punti seguenti: 1) che i concetti sieno concetti puri, e non empirici; 2) che appartengano non all’intuizione e alla sensibilità, ma al pensiero e all’intelletto; 3) che sieno concetti elementari, ben distinti dai derivati e da quelli risultanti da essi per composizione; 4) che la loro tavola sia completa, e abbracci interamente tutto i1 dominio dell’intelletto puro. Or questa compiutezza d’una scienza data non può ottenersi con sicurezza col calcolo all’ingrosso di un aggregato messo insieme per tentativi; quindi essa è possibile soltanto mediante un’idea della totalità della conoscenza intellettuale a priori e per mezzo della divisione dei concetti che la costituiscono, determinata in base a cotesta idea, e quindi per mezzo della loro connessione sistematica. L’intelletto puro si distingue assolutamente, non solo da ogni elemento empirico, ma anche da ogni sensibilità. E’ dunque un’unità per sé stante, sufficiente a se stessa, e non suscettibile di aumento per aggiunte dall’esterno. L’insieme quindi della sua conoscenza formerá un sistema, da essere compreso e determinato sotto una sola idea, e la cui compiutezza e articolazione possono fornire a un tempo una pietra di paragone per provare l’esattezza e il valore di tutte le parti di conoscenza che vi rientrano. Tutta questa parte della logica trascendentale consta di due libri, uno dei quali comprende i concetti, e l’altro i principi dell’intelletto puro. >> Pp. 291, 293, 294: << Noi abbiamo detto più sopra la dialettica in generale logica dell’apparenza >>. << L’apparenza logica, che consiste nella semplice imitazione della forma razionale (l’apparenza - 21 - dei sofismi) sorge unicamente da un difetto di attenzione alla regola logica. Appena quindi questa viene rivolta sul caso in questione, quell’apparenza si dilegua del tutto. L’apparenza trascendentale, invece, non cessa ugualmente, se altri già l’abbia svelata e ne abbia chiaramente scorta la nullità mediante la Critica trascendentale. E la causa è questa, che nella nostra ragione (considerata soggettivamente, come facoltà conoscitiva umana) ci sono regole fondamentali e massime del suo uso, che han tutto l’aspetto di principi oggettivi, per cui accade che la necessità soggettiva di una certa connessione del nostri concetti in grazia dell’intelletto venga considerata come necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé. Illusione, che è affatto inevitabile >>. << La dialettica trascendentale sarà paga per tanto di scoprire l’apparenza dei giudizi trascendentali, e di prevenire insieme che essa non tragga in inganno; ma di questa apparenza anche si dilegui (come l’apparenza logica) e cessi di essere un’apparenza, questo è ciò che non può giammai conseguire. Perché noi abbiamo che fare con una illusione naturale ed inevitabile, che si fonda essa stessa su principi soggettivi, e li scambia per oggettivi; laddove la dialettica logica, nella risoluzione dei paralogismi, non ha da fare se non con un errore nello svolgimento del principi, o con un’artificiale imitazione di essi. Essa è dunque una dialettica naturale e necessaria della ragion pura; non la dialettica in cui s’avviluppi, per es., il guastamestieri per mancanza di cognizioni, o che un qualunque sofista abbia escogitato ad arte per imbrogliare la gente ragionevole; ma la dialettica, che è inscindibilmente legata all’umana ragione e che, anche dopo che noi ne avremo scoperta l’illusione, non cesserà tuttavia di adescarla e trascinarla incessantemente in errori momentanei, che avranno sempre bisogno di essere eliminati. >> Vol. II, p. 516, 517, 519: << Il risultato di tutti i tentativi della ragion pura non solo conferma quello, che noi già dimostrammo nell’Analitica trascendentale, ossia, che tutti i nostri ragionamenti, i quali vogliono condurci al di là del campo dell’esperienza possibile, son fallaci e senza fondamento; ma c’insegna nello stesso tempo questo di particolare, che l’umana ragione ha qui una propensione naturale ad oltrepassare questi limiti, che le idee trascendentali sono per essa altrettanto naturali che per l’intelletto le categorie, sebbene con la differenza, che le ultime - 22 - conducono alla verità, cioè all’accordo dei nostri concetti con l’oggetto, laddove le prime generano una semplice, ma irresistibile apparenza, la cui illusione, appena si può rimuovere mercè la critica più acuta >>. << Lo affermo per tanto che le idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo, sicché per mezzo di esse possono esser dati concetti di certi oggetti; e che, ove esse siano intese a questo modo, sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Ma, viceversa, hanno un uso regolativo eccellente e impreteribilmente necessario: quello di indirizzare l’intelletto a un certo scopo, in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole convergono in un punto; il quale - sebbene non sia altro che un’idea (focus immaginarius), cioè un punto, da cui realmente non muovono i concetti dell’intelletto, essendo esso affatto fuori dei limiti dell’esperienza possibile, - serve nondimeno a conferir loro la maggiore unità con la maggiore estensione. Ora per noi sorge veramente di qui l’illusione, come se queste linee direttive si diramassero (come gli oggetti sono veduti dietro la superficie dello specchio) da un oggetto stesso, che gichampionsse fuori del campo della conoscenza empirica possibile; se non che questa illusione (che pure si può impedire, che non inganni) è tuttavia inevitabilmente necessaria, se oltre agli oggetti, che ci sono innanzi agli occhi, vogliamo vedere insieme anche quelli che ci stanno lontani alle spalle, cioè se, nel nostro caso, vogliamo portare l’intelletto al di là d’ogni esperienza data (parte della totale esperienza possibile), quindi anche alla maggiore estensione possibile ed estrema >>. << L’uso ipotetico della ragione per via di idee messe a fondamento come concetti problematici non è propriamente costitutivo, ossia non è di tal fatta che, se si vuol giudicare con tutto rigore, ne segua la verità della legge universale per ipotesi; come sapere infatti tutte le conseguenze possibili, che, derivando dallo stesso principio assunto, ne dimostrino la universalità? Esso invece è soltanto regolativo, per mettere, quanto è possibile, unità nelle conoscenze particolari e approssimare così la regola dell’universalità >>. * * * - 23 - Fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra catastrofe e ricostruzione, e un viaggio - un dislocamento eptstemologico ed anche un processo storico. Poiché, come Marx ci ha insegnato, il tempo della rivoluzione modifica lo spazio, meglio, segna di determinazioni temporali lo spazio e sceglie un tempo come luogo, più o meno privilegiato, di sviluppo di crisi e di trasformazione. Noi stiamo vivendo non solo il ciclo della modificazione del modo di produrre ma soprattutto la sua radicale innovazione, la sua sussunzione al livello più alto, - intendo, la sintesi terminale dello sviluppo capitalistico. E’ lì, dove lo sviluppo capitalistico appiattisce e riconduce ogni differenza, che il processo rivoluzionario deve riconoscersi come preambolo dell’esistente e del suo rovesciamento, come condizione dell’immaginazione. Diciamo, qua e là, in questo libro: << Lenin a New York >>, - per scherzare con la storia, attraverso l’immaginazione rivoluzionaria. New York è la sussunzione reale della società mondiale nel capitale, Lenin è il genio dell’antagonismo e della sovversione. Lenin a New York: sembra a me la divisa del comunismo per i prossimi decenni. Qui io presento solo un’introduzione - etica ed epistemologica - al problema. Credo tuttavia che questa introduzione sia fondamentale. Negli scritti contenunti in Appendice, ed in particolare nella << Lettera ai compagni di Montreal >>, sono indicati del terreni sui quali approfondire la ricerca. Ma non è possibile farlo se l’etica dell’immaginazione sovversiva non s’instaura alla base della ricerca. Se il preambolo rivoluzionario non si rivela, come tale, nella prassi. Transiti diversi, varie strategie sono qui possibili allo scopo di afferrare praticamente la maturità della trasformazione necessaria. L’urgenza del paradosso ontologico cui la vicenda del razionalismo occidentale e del capitalismo ci ha condotto, il quadro di morte che l’estrema accelerazione e maturazione dello sviluppo ci ha regalato - tutto ciò l’abbiamo dinnanzi. Non risultano tuttavia tali da imporsi un blocco della ricerca né una paralisi della volontà. Se il pensiero si impianta nella pratica e sceglie quest’ultima come luogo ontologico fondamentale, - il paradosso di morte e i rompicapi distruttivi che ci si presentano, possono essere risolti. Questa è dunque una propedeutica metafisica alla prassi trasformatrice. 7 aprile 1986 - 24 - Avvertenza Alcuni dei testi qui pubblicati, sono già apparsi in varie riviste o sono stati letti in cenacoli diversi. Così, ad esempio, l’introduzione alla Parte II (<< La rivoluzione come preamboli >>) è la traccia di una conversazione che ho avuto l’onore di introdurre, il 15 giugno l984, nel seminario parigino di Francois Châtelet. Il paragrafo 6 della Parte III (<< a proposito dell’aforisma: pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>) è il testo di un intervento che in forma solo leggermente semplificata è stato letto e discusso in alcune sedute del seminario dei prigionieri politici che si teneva nel carcere di Rebibbia Roma G12, nel settembre - ottobre 1982 Quest articolo nell’attuale forma e in traduzione francese, è ora in corso di pubblicazione nella rivista << Chemin de ronde >>. Il Paragrafo 7 della Parte III (<< Lenin a New York Progetto di lavoro >>), è una lettera scritta ai compagni che a Montreal, nell’ambito dell’Università del Quebec, hanno tenuto aperta una sede di lavoro teorico-politico spinato al marxismo critico rivoluzionario. La lettera è datata 15 aprile 1985, e si riferisce in particolare al risultati del convegno del novembre 1984 sui movimenti autonomi della classe operaia contro lo Stato. I Paragrafi 1, 2, 3, 4, 5, della Parte III sono stati rispettivamente pubblicati: << Erkenntnistheorie >>, con il medesimo titolo, in << Metropoli >>, n 5, anno III, Roma, giugno 1981, pp. 50-53 (il saggio porta comunque la data 25 aprile 1981); << La potenza sociale del lavoro >> come nota introduttiva alla riedizione di << Classe Operaia >>, Collettivo Libri Rossi/Area Milano, 1980 (la nota porta la data << agosto 1979 >>); << Per un nuovo schematismo della ragione >> é apparso, in francese, con il titolo << A’ propos de Logos et théorie des catastrophes de Jean Petitot >> in << Babylone >>, n 4, Printemps-Ete 1985, UGE 10/18, avril 1985, Paris, pp. 219-227; << Sull’orlo dell’essere >>, è apparso in << Alfabeta >>, n. 41, ottobre 1982, pp.21-22; << L’istituzione logica del collettivo >> è stato pubblicato in << Aut aut >>, n. 197-198, settembre - dicembre 1983, pp. 133-142. Ai direttori ed ai redattori delle riviste che ne hanno concesso a nuova pubblicazione, va il mio ringraziamenti. - 25 - |
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