5. L’istituzione logica del
collettivo e le fatiche dell’estetica.
Roberta De Monticelli, il cui volume merita un’approfondita discussione, non ha dubbi nel trarre decisamente verso un orizzonte linguistico, qualificato in termini di intrascendibilità, anzi senz’altro Wittgenstein, la teoria del pensiero - ed in genere la logica di Frege. Quest’operazione viene condotta nei primi otto capitoli che costituiscono la prima parte del suo volume. Le critiche che si possono opporre a questa prima operazione di geometrica proiezione di Frege su Wittgenstein (operazione che potrebbe essere ritenuta di appiattimento) sono parecchie. Meglio di tutti, e con molta attenzione filologica, le eleva Michael Dummet [sic one or two t’s? ] nella sua prefazione al volume. Il peso indubbio di queste critiche non toglie il fatto che l’operazione della De Monticelli, nel suo libro, sia molto robusta e stimolante. Ma vediamo lo obiezioni di Dummet. a) L’autrice esagera il carattere aprioristico del pensiero di Frege - il resoconto a priori del linguaggio che Wittgenstein elabora nel Tractatus, non è invece nel programma di Frege. b) La negazione dell’epistemologia non è in Frege presupposizione di una metafisica realistica - come invece avviene in Wittgenstein. In Frege v’è al massimo un orientamento in tal senso. c) Il rapporto fra realismo ed oggettività dei pensieri e del loro valori di verità non esclude, come invece avviene nel Tractatus, i problemi dell’apprensione, della nostra capacità di riconoscere le condizioni di vera. d) Troppo facile è la riduzione della Bedeutung al Sinn - in realtà, in questi termini, il linguaggio viene ridotto a concetto astratto. Ma storicamente non è avvenuto così. La svolta linguistica della filosofia non ha tralasciato la considerazione del rapporto reale e il Sinn, come in genere il rapporto logico, è stato inizialmente interpretato come veicolo del reale. e) E’ davvero il pensiero di Frege tanto coerente quanto la De Monticelli (poggiando sul tardo
Come ho già detto, credo che queste obiezioni, più che inficiare lo schema della ricerca della De Monticelli, ne mostrino a robustezza dell’impianto. Poiché, a mio avviso, quanto è filologicamente avventuroso - il sospetto appiattimento di Frege su Wittgenstein - è filosoficamente legittimo e vale a porre un problema per noi fondamentale. Poco importa se sia un problema nuovo. A me sembra infatti che, attraverso la sua interpretazione nella svolta linguistica della filosofia, la De Monticelli esplichi un paradosso teorico - che può essere così formulato: l’ontologia formale dell’orizzonte linguistico del Tractatus interpreta correttamente le istanze realistiche e l’apertura alle esigenze della comunicazione che sono proprie della filosofia fregeana. Fra Frege e Wittgenstein non cambia il desiderio di realtà - è cambiata, effettualmente, la realtà. Il mondo ci è dato nella forma dell’ontologia linguistica - la genesi fregeana di quest’ontologia non è contraddittoria con il risultato - malgrado il carattere paradossale del processo. Il mondo linguistico sussume i problemi del realismo. (E’ chiaro allora che a M. Dummet, che dagli anni ‘50 va sviluppando una concezione antirealistica ed intuizionistica del linguaggio, queste premesse della De Monticelli sembrino fortemente criticabili. Diverso sarà l’atteggiamento di M. Dummett a fronte delle conclusioni dell’autrice - ma di questo più tardi).
La De Monticelli risponde solo parzialmente alla questione che si è proposta. Definito correttamente il terreno della ricerca, se ne ritrae infatti precipitosamente, scegliendo una consueta quanto perniciosa scorciatoia nello svolgimento del compito: una via kantiana. Nei capitoli IX (<< La ‘vita’ e il ‘mondo’ >>), X (<< Frege e la teoria kantiana dell’intelligenza >>), XI (<< Esperienza e giudizio >>), che aprono la seconda parte del suo volume, la De Monticelli tenta dunque di sviluppare, su base fregeana, una dottrina complessiva dell’intelligenza. I tre capitoli costituiscono, nell’allargamento tematico che presentano, un’analisi degli elementi di avvicinamento di Frege a Kant, nella teoria della percezione, nella teoria dell’lo e dell’autocoscienza, nella teoria del concetto. E’ chiaro che, in questo campo, ogni passo verso Kant è un passo di allontanamento da Wittgenstein. Ma l’argomentazione si fa appunto teoretica. E si svolge: a) attraverso la ridefinizione di una teoria della percezione cognitiva, in senso kantiano, e cioè di una teoria che prevede la coincidenza di elementi percettivi e di elementi intelligenti come condizione dei primi. Il segno kantiano è allegato alla teoria delle condizioni dell’essere conoscitivo; b) la ridefinizione di una teoria trascendentale dell’orizzonte linguistico, ovvero del passaggio - mediato dall’io cosciente - dalla percezione degli oggetti alla definizione dei concetti. Questo kantiano passaggio contiene la refutazione dell’idealismo soggettivo; c) terzo punto è l’elaborazione della teoria del concetto come sintesi di esperienza ed intelligenza nel linguaggio. Su questo terreno la De Monticelli sviluppa con coerenza la teoria del concetto verso l’articolazione di funzioni logiche (ad esempio, con riferimento al problema dell’individuazione) e la rifonda nella prospettiva costitutiva dello schematismo trascendentale. La relazione Sinn Bedeutung è oggi completamente risolta dentro questo rapporto.
Nei capitoli successivi XII-XV, l’avvicinamento a Kant viene ulteriormente spinto e specificato - nel senso che, sulla base della dottrina fregeana dell’<< afferrare >> (posta a contrasto, a differenza del << giudicare >> kantiano), tutto il processo viene per così dire centralizzato, appesantito, << empiriocriticizzato >>. Si badi bene: non è che l’orizzonte kantiano sia superato, la verità non viene tolta alla sua realtà trascendentale-critica (e si rifiuta radicalmente la teoria della verità-verificabilità) - l’orizzonte kantiano viene << più >> empiricamente connotato. Così ad esempio, si insiste sul ruolo delle << espressioni indicali >>, degli << stati modali >>, sul << colore >> delle proposizioni. Per concludere: << la valenza epistemologica del concetto di senso (ritenuto il vecchio concetto di epistemologia come rapporto fra verità e verificabilità) fa della posizione di Frege un realismo forte, ma non un realismo puro >>. Un realismo << poetico >>, soggiunge la De Monticelli. Annotazioni analoghe si possono fare quando l’autrice passa, dalla dottrina del Sinn, alla considerazione della teoria della Bedeutung. La funzione riferimento, con le sue due caratteristiche di immediatezza percettiva e persistenza concettuale, viene riportata all’orizzonte del realismo << impuro >> dell’intenzionalità, à la Brentano. Il processo dell’individuazione ha solo degli aspetti delle componenti epistemologiche - di verificabilità. << Vie d’accesso alle cose >> - che non si concludono, sentieri interrotti. I processi d’individuazione hanno componenti epistemologiche ma solo la teoria del Sinn determina la completezza del progetto. La sensibilità è infatti coinvolta nelle procedure di individuazione ma non nella procedura di giustificazione dell’oggetto. La comunicazione, le funzioni-riferimento sono intenzionali. Il processo di verifica non è altro che un processo, un ondeggiare fra apparenza e realtà, fra soggettivo ed oggettivo, una descrizione fenomenologica del processo stesso. L’idea di distinguibilità fra essere ed apparenza è costitutiva della percezione - ma solo, appunto,
Quest’innesto, sull’albero della filosofia linguistica, di apporti kantiani e fenomenologici, pur essendo tipicamente scolastico (nell’accademia Italiana), coglie tuttavia la polarità fondamentale del pensiero filosofico contemporaneo che si confronta con la sovradeterminazione ontologica del mondo linguistico - fra Husserl e Wittgenstein. Originale è nella De Monticelli il sentimento della necessità della disarticolazione interna dell’ascettivismo husserliano e del misticismo wittgenstiano - e la sua tendenza a riconquistare il senso della realtà della totalità linguistica, inverandone la genesi, ad esperire con coraggio l’istituzionalità complessiva dello spazio logico e la sua potenziale elasticità. All’originalità della strategia si contrappone [sic] l’infelicità della mossa kantiana.
Ma ricostruire un orizzonte articolato e realistico, nella crisi del logos, dentro la svolta linguistica, è forse compito che possa essere affidato alla poetica? E’ con estremo disagio che mi propongo questo interrogativo perché, se da un lato sento la suggestione della proposta e la forza e il colore e la costruttività del progetto (non nuovo tuttavia, è già nello Steinhof, attorno ai medesimi problemi, prospettato), pure non riesco a considerare la poesia come alternativa alla crisi del logos. Certo, è il pregiudizio di una millenaria cultura che in ciò mi blocca: ma, en philosophie, è anche la convinzione che la conoscenza estetica non innovi rispetto alla logica, che sia rinchiusa nello stesso orizzonte.
Ora, il problema è la Krisis del Logos. Crisi esasperata dalla conclusione wittgensteiniana della logica nel Tractatus, dalla sovradeterminazione mistica che la sussunzione logico-linguistica del mondo riceve. La De Monticelli attacca la sussunzione ripercorrendone la genesi: Frege. La domanda è quindi: evitando ogni éscamotage kantiano, può Frege indicarci, assieme alla via verso la sussunzione logica, una chiave di articolazione - che è come dire, di riappropriazione logica del mondo? Secondo me è possibile rispondere affermativamente alla questione - pur trattenendo il gioco filosofico fra questi due autori. Purché la potenza del pensiero logico di Frege sia assunta fino in fondo e la dialettica fra la genesi fregeana della sussunzione logistica del mondo e la sovradeterminazione mistica che ne fa Wittgenstein siano considerate in tutte le loro articolazioni. Ora, Wittgenstein
A me non importa molto che la De Monticelli non abbia sviluppato il suo discorso in questo senso. Ritengo particolarmente infelice il tentato éscamotage kantiano (che, oltre tutto, come riconosce lo stesso Dummett ha ben poche ragioni sul piano filologico). Ma ritengo che i problemi posti dalla De Monticelli siano fondamentali. Andiamo oltre la Krisis del Logos cercando di attraversarne l’intera intensità: questo ci sembra dire, in maniera irrefutabile, la De Monticelli. Ed è questo orizzonte della sussunzione, dell’astratto generale, questa Krisis che riformulano gli oggetti e riqualificano le dinamiche e gli ambiti. E’ qui dentro che il mondo - questo incredibile ma vero astratto mondo - si fa ora vita e produzione.
E’ interessante notare, a questo punto, come i concetti base di certa tradizione della logica, di cui sembra non si riesca a liberarsi, siano invece non solo in crisi ma, per così dire, cancellati dalle acquisizioni rivoluzionarie della logica postfregeana - ed in particolare dinanzi alle determinazioni produttive del giudizio analitico a posteriori (dove la presupposizione della classe dell’individuo non è semplicemente descrittiva) ed alla conseguente dissoluzione della tradizionale divisione fra enunciati descrittivi ed enunciati valutativi. Qui la logica postfregeana si coniuga con l’epistemologia postbachelardiana. Poiché la comunicazione è un fenomeno etico-politico e presenta l’essere come un orizzonte di praticabilità, come un cantiere di formazioni linguistiche, solo un’antropologia del movimento collettivo può allora chiarirla. La scienza della produzione - o della distruzione - la potenza ed il potere si presentano su quest’orlo dell’essere, dentro la totalità dell’intelletto generale e le dimensioni della sussunzione, come esclusivi elementi critici. E’ ben vero che l’immagine - come vuole la De Monticelli - veste ora il cosiddetto pensiero nudo, ma lo riveste dentro quelle dimensioni pubbliche, collettive, produttive che il pensiero, fuori da qualsiasi robinsoniana nudità, ha assunto. E noi abbiamo bisogno di una logica a questo livello, che abbandoni ogni nostalgia del fondamento, che assuma interamente il commercio umano e la multitudo come dimensione propria. Probabilmente la determinazione etica del mondo è il solo orizzonte che la rivoluzione logica ci consegna come possibilità di scienza. Il problema del mondo e quello della vita ritornano ad essere uno solo.
Sono sempre stato stupito dalla frequenza con la quale negli ambienti politici ho sentito e sento ripetere l’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>. Dopo Gramsci (1). La ripetizione è di gramsciani e non, di progressisti e reazionari, di carcerati e carcerieri, di amici e nemici, di comunisti e liberali, di giovani e vecchi. Il tono argomentativo che accompagna l’esclamazione è più o meno questo: razionalmente non c’è nulla, o c’è poco, da fare - proviamo comunque. Se la ragione attesta un blocco, un limite - solo una sobria resistenza, una convinta insistenza potranno permetterci un orientamento positivo. Poco m’interessa l’ipocrisia spesso celata dall’aforisma: qui non dobbiamo fare né satira né moralismo. Assumo piuttosto l’aforisma come segno di una contraddizione, immediatamente rivelata, nell’etico e nel politico. E poiché il politico è, o dovrebbe essere, la scienza del possibile e quindi della volontà (ed è comunque interpretato in questo senso dai ripetitori dell’aforisma) - mentre l’etica è scienza del desiderabile e quindi della ragione, assumo l’aforisma come indicazione di un’eventuale contraddizione fra l’etico e il politico, fra la ragione e la volontà. Per cominciare. Sembra accertato che, all’inizio dell’età moderna, nella rinascenza, la contraddizione fra l’etico e il politico sia storicamente generata dalla necessità di rendere autonomo il politico dalla morale. In effetti, l’assorbimento della morale nella teologia non lasciava altra via d’uscita a chi volesse emanciparsi [emanciparci?] da forme tradizionali di dominio. Il cosiddetto conflitto di morale e di politica
Senonché un ostacolo, per così dire, ontologico presto si rivela. Ed è che, comunque motivata, la politica come scienza del possibile, rivela l’impossibile e la pratica del governo scontra nuovi limiti strutturali. E’ attorno alla consapevolezza del limite che l’ipotesi del conflitto fra morale e politica si ripropone. Nella vicenda dello Stato moderno, la concezione gerarchica del rapporto di morale e politica (o di politica e di morale) fa così luogo ad una concezione orizzontale, di reciproca autonomia ed esclusione, fra morale e politica. L’autonomia del politico, come pratica e come scienza, si distingue dall’autonomia della morale. Morale e politica istituiscono spazi separati. Il volto demoniaco del potere diviene consueto, quanto quello angelico della morale. Se la prima separazione (umanistica) del politico dalla morale è un atto di libertà e un momento di costituzione egemonica del politico (soprattutto nella sofisticata immagine dello Stato di diritto), - la seconda separazione, tipica della nostra epoca, è un atto di riflessione critica, di limitazione dell’energia costitutiva. Ed è qui che si riafferma l’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>: come registrazione dell’impossibilità di costruire la totalità e come esplicazione dell’urgenza di afferrarla comunque (3). Su questa congiuntura precipitano motivazioni quanto mai diverse. Così, in primo luogo, qui convergono le concezioni del << determinismo scientifico >>. Quando la saldezza dell’orizzonte
In secondo luogo, e rafforzandola, la concezione del limite razionale della politica è affermata da quel corpo di dottrine che chiamiamo del << relativismo etico >>. Avalutatività (razionale) e decisionismo (pratico) sono le forme nelle quali si presentano qui i concetti di validità e di valore, le figure centrali di scienza politica e di etica - e quindi di una dialettica di autolimitazione che, riconoscendosi come tale, esige comunque di essere efficace, di fondarsi quindi sulla necessità razionale di un << salto mortale >>. Tanto più avalutativo è il giudizio, tanto più decisionistica è la proposta (5). In terzo luogo conduce ad una similare concezione del limite razionale della politica il << realismo sociologico >> - quando, agitandosi fra omogenee contingenze, fra equipollenti potenze, è indotto ad una serie di dilemmi che solo un certo ottimismo della volontà, una certa sovradeterminazione pratica possono risolvere. Il realismo sociologico non sa distinguere né cogliere le singolarità, - se non attraverso riferimenti esterni, trascendenti il suo orizzonte linguistico. La sovradeterminazione della volontà a fronte della relativa impotenza della ragione è, in ciascuno di questi casi, l’unica soluzione. Si potrebbe continuare nella casistica. L’antinomia fra ragionevole e limitata scienza della politica e decisione etica è segno caratteristico del nostro tempo. Questa situazione critica si è, per così dire, normalizzata, fino a manifestarsi regolarmente nel linguaggio comune - talora in termini caricaturali. Che solo gli enunciati descrittivi creino certezza mentre gli enunciati valutativi sono fortuiti, che i giudizi etici sono quindi azzardati, ecc. - bene, questi sono ormai ritornelli di un sapere comune che mostra le difficoltà dell’agire come momenti antinomici, razionalmente insolubili. Su questa base, le stesse forme della politica, le più gelosamente custodite quali indici di valore comunque legittimanti
Cinismo, allora? Valutazione solo irrazionale, violenta, immediata della realtà? Com’è altrimenti possibile rispondere alle esigenze della pratica? Il politico è un mondo limitato, non riesce a comprendere il resto, il differente - ma il resto, il differente debbono essere condotti al limite, essere compresi nel limite. Cinismo è questa riduzione della totalità al limitato, - è la frustrazione dell’etico assunta a fondamento del politico. Il conflitto fra il politico e l’etico non è considerato come un terreno sul quale si svolga una lotta di valori - bensì come scenario di soluzioni obbligate secondo le norme di un potere che, sentendosi parziale e limitato, pure deve raggiungere un risultato. La razionalità è regola di emergenza, di eccezionalità. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà, di una ragione impotente e limitata e di una volontà potente e cinica (7). Con ciò la confusione è completa. E’ indubbio infatti che questa concezione del politico è essa stessa un’etica, depotenziata ma non perciò meno efficace. Una sorta di divinità terrestre, rovesciata e maligna. Ma, se è così, il conflitto cui assistiamo non è fra etica e politica, bensì è antagonismo fra corpi diversi - un corpo etico-politico e, di contro, un altro corpo etico-politico, e così di seguito. Il conflitto è fra diverse divinità. Chi riordinerà queste potenti contingenze? Max Weber, uno dei più lucidi studiosi della politica del secolo XX, ha appunto chiarito come dal monoteismo si dovesse trascorrere al politeismo nella definizione dell’orizzonte di valore che costituisce la politica. Egli chiede a ciascuno di prendere posizione, di radicare eticamente la sua << Beruf >> politica, di entrare nella mischia. Sapere la relatività, egli sostiene, fosse pure l’unicità del punto di vista, non toglie la radicalità
Nella crisi del pensiero etico, giuridico e politico del nostro tempo si introduce dunque, in primo luogo e prepotentemente, la necessità, se non di risolvere questi problemi, almeno di dar conto di questi fenomeni. E’ stato notato che l’esistenza dell’ordine sociale è ormai inverosimile, - vale a dire che non è spiegabile la sua normalità. Man mano che la complessità sociale aumenta, la contingenza di tutti gli eventi tende a divenire assoluta. Il pessimismo della ragione aumenta così a dismisura, fino a produrre risultanze scettiche. Occorre però salvarsi dall’invadenza distruttiva della contingenza, dalla sua onnilaterale possibilità mai riducibile alla necessità razionale. Se, per dirlo nei termini della filosofia classica, l’essere è equivoco, dentro quest’equivocità occorre comunque orientarsi [orientarci ?] - tanto più poiché l’essere sociale è condizione di esistenza. Se queste contingenze, ad esempio, fossero armate - ed il raffinamento degli arsenali è continuo - chi si salverà? Qual’è il limite nella relazione fra contingenza e ragione di sopravvivenza? Qui, l’ottimismo della volontà assume allora una veste finalistica, strumentale e tecnica. Ci si chiede di accettare soluzioni tecniche che sono anche risposte alle questioni di una sorta di morale provvisoria, - un sistema di convenzioni atte a ridurre la complessità delle contingenze, a permetterne la
Quella cui qui voglio riferirmi con qualche accenno è la costruzione dell’immagine del mondo sociale propostaci dal sistemismo tedesco, ed in particolare da Niklas Luhmann. Quest’autore è probabilmente il miglior riformulatore di un’ipotesi di ottimismo della volontà nel nostro mondo (8). Ora, l’immagine del mondo sociale qui presentata è, a prima vista, del tutto paradossale. Essa si vuole infatti completamente oggettiva - ed infatti lo è, in quanto la comprensione dell’essere sociale è affatto strumentale, tecnica - ma nel contempo è un immagine pan-etica. Il sistema è infatti autoreferenziale: quindi la sua oggettività implica la soggettività dell’autoreferenza. Ogni segno dell’esistenza viene compreso e ridotto dentro la complessità sociale e l’operazione di riduzione proposta è interna ai segni dell’esperienza, e della totalità dell’orizzonte sociale interpretato dal soggetto. Di conseguenza, la questione che si pone e che va risolta, è la seguente: quali sono i parametri che rendono verosimile la selezione della complessità? Che cosa può rendere meno equivoco - se non univoco - l’essere sociale? E come può la volontà dibattersi nel caos delle contingenze e dare qualche verisimiglianza alla generosità della sua pretesa, all’esigenza di efficacia della ragione strumentale? Il problema è decisivo perché, essendo il referente sociale considerato in termini omogenei, esclusivi, il fine perseguito non è semplicemente tecnico. Ma che cos’è una tecnica della morale, una tecnica costretta ad investire l’intero mondo etico, - una tecnica quindi, non solo del comando bensì del consenso, una morale, dunque, si provvisoria, ma coestensiva all’intera politicità? L’ottimismo della volontà dà a questa serie di problemi una risposta quanto mai ingegnosa - l’operazione di riduzione della complessità sociale è tradotta in operazione di sostituzione della realtà. Ma, oltre ad essere ingegnosa, questa risposta è coerente - non potrebbe essere diversa. La morale provvisoria si presenta infatti nella forma del sistema. Il sistema viene costituendosi attraverso un processo di riduzione della complessità. Questo processo di riduzione e produzione di un’immagine oggettiva, dotata di sistematicità interna, autoreferenziale, che seleziona continuamente gli elementi che sono coerenti – l’ambiente e la storia possono solo essere recuperati dentro un meccanismo
L’inversione del rapporto fra ontologia e logica, e la primalità di quest’ultima - sicché è il senso degli enunciati e delle funzioni a produrre il significato - è cosa consueta nella filosofia contemporanea, a partire da quella che è stata chiamata la svolta linguistica (9). Ma non è pacifica - tanto più quando quest’inversione avviene nel campo dell’etica e investe le burrascose condizioni di esistenza del sociale. Ma di ciò più avanti. Qui interessa ancora scrivere come l’ottimismo della volontà possa presumere di organizzarsi in logica costitutiva del sociale. Questo può avvenire ad alcune condizioni, tutte proposte da un processo teorico di depotenziamento del reale, di svuotamento ontologico del mondo. Mentre nelle forme più ingenue dell’ottimismo della volontà il mondo non è negato ma semplicemente assunto come condizione tragica ed irresolubile, in queste più sofisticate versioni la volontà si fa rappresentazione. Il mondo è orizzonte di comunicazione, come tale si organizza in sistema autoreferenziale - ma questa produzione di significati è inevitabilmente tautologica - e solo la creatio continua, la continua parousia della volontà permette la determinazione di elementi selettivi, la riduzione della sfera del caso, la posizione di proposte innovative. Datosi come sostituzione del reale, il sistema del mondo trova solo l’ottimismo della volontà come attività che ne allarga la presa nell’orizzonte della vita. E quest’ottimismo della volontà è, per così dire, reso metafisico - perché è metafisica la progressione del reale come autoastrazione, come dinamica di strutture e di sistemi dentro i quali ogni attività soggettiva si oggettivizza e appunto con ciò definisce nuove possibilità di riduzione-produzione (10). Che Schopenhauer sia fra le letture di Wittgenstein, è noto -che ne sia anche il prodotto, quando la filosofia ritorna sul sociale, è interessante. Se in Wittgenstein il rapporto verisimiglianza-normalità, per quanto pittoricamente depotenziato, è comunque dato, - nello schopenhauerismo degli epigoni tale rapporto è radicalizzato: la normalità è e resta inverosimile. La volontà interviene a far si che il contenuto della comunicazione intersistemica sia eguale a zero. Ché infatti solo in tal modo le condizioni di tenuta del sistema - è del suo equilibrio - sono soddisfatte. Non
(E se invece, di contro, il processo di astrazione della realtà fosse un processo reale e razionale? Ma di questo più tardi). Qui affermare è togliere. L’ottimismo della volontà diviene qui una formalistica autoproduzione, un’equivoca hegeliana Aufhebung - esasperazione irrazionalistica e volgare del salto in avanti come salto mortale. La diafana figura del sistemismo non ha più neppure la curiosa concretezza del gioco e del divertimento, dell’astuzia e del compiacimento estetico. L’astrazione è simulazione, è sostituzione della realtà. L’autoastrazione è autocostituzione, ma illogica, vuota. Asylum ignorantiae. Mai la volontà ha tanto disperatamente opposto la propria pretesa di rappresentazione, il proprio frenetico bisogno di spostamento, di annullamento e/o di sostituzione del reale - alla prassi concreta, collettiva e costitutiva, razionale. In questa riforma del modello aforistico del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà precipitano tutti i motivi irrazionalistici della crisi contemporanea. La linea Schopenhauer-Wittgenstein si conclude nel sistemismo. E questo precipitato raccoglie tutte le espressioni teoriche dell’ottimismo della volontà cieca (11). Come un impluvio dai mille canali. Si sa tuttavia quanto gli equilibri ecologici siano corrotti. Vuol forse dire questo che nell’impluvio sistemico, talora divenuto latrina di periferia, specchi il suo faccione anche la continua tentazione fascista e autoritaria? E’ comunque certo che nell’attuale crisi della democrazia l’ottimismo della volontà nutre un’autonomia del politico che è tensione di progetto totalitario. Il
L’autoastrazione del reale è un processo reale. Proprio perché esso è reale non conclude alla tautologia - in nessun caso. Noi possiamo trasformare in tensione reale la tensione teorica propria dell’analisi sistemica a confronto con l’ambiente e con la storia. Quella tensione che nel sistemismo è continuamente frustrata nel fittizio dualismo di teoria e realtà, di sistema autoreferenziale e pratica di sostituzione - noi possiamo coglierla in termini reali. Di qui l’effettivo progresso conoscitivo che una mistificazione epistemologica (quale la sistemica) può comportare. Ora, possiamo dunque registrare alcune novità conoscitive che non l’ottimismo della volontà ma la forza della ragione dovranno verificare. Il primo punto consiste nella definizione dello stesso processo di autoastrazione del reale, e cioè della realtà sociale. Poco ci interessa qui strappare la maschera idealistica imposta al processo: è utile e sufficiente sottolineare alcuni caratteri formali del processo stesso (per intenderci che ritroviamo fondati nell’analisi del processo di sussunzione capitalistica della società produttiva e nella trasformazione della qualità del lavoro produttivo) (12). Ora, nel processo di autoastrazione del reale la distinzione fra soggetto ed oggetto viene meno. Conseguentemente, il rapporto fra logica ed ontologia si appiattisce, si ristruttura su un orizzonte di reciproche funzioni. L’articolazione interna della realtà astratta è posta nella circolazione di ipotesi logiche
Ora, se nel paragrafo precedente ho sottolineato come l’orizzontalità e l’equipollenza di ogni dimensione del quadro sistematico non possano essere vivificate se non da un rozzo procedimento volontaristico, da un decisionismo solo sofisticato da una lettura creazionista, continuata, - e quindi come la mistificazione consista nella volontà di nascondere le contraddizioni reali, gli antagonismi della prassi, addirittura nella volontà di distruggere la prassi per esaltare la pura determinazione irrazionale del dominio - qui va detta la ragione per la quale questa sortita reazionaria nella teoria politica è comunque interessante e portatrice di novità conoscitive. Va detto perché essa ponga un problema del tutto reale. Il fatto innovativo, e problematico, consiste in ciò che l’autoastrazione della realtà sociale non è una tendenza ideale ma un processo reale - un atto costitutivo dell’ontologia sociale. Da questo punto di vista è forse interessante notare che alcune conquiste fatte, in forma estremamente più matura, estremamente più forte, dalla logica contemporanea nel suo sviluppo, possono valere come referente analogico nel chiarimento del problema registrato dal sistemismo. Alludo al fatto che, nella vicenda della logica contemporanea ed all’interno della sua svolta linguistica, abbiamo sia l’integrale riduzione del mondo ad un orizzonte comunicativo, sia la perfetta identificazione dell’ordine
Ma perché questo avvenga è necessario che il rapporto fra astrazione e tautologia sia sciolto. E lo è soltanto nella misura nella quale l’astrazione della realtà sociale non subisce la violenza di una formalizzazione depotenziata e depotenziante, del misticismo della forma - prodromo del volontarismo, dell’ottimismo della volontà, della stoltezza del decisionismo. La logica linguistica prefigura le avventure del formalismo e del funzionalismo sistemici - mostrando essa stessa, come quest’ultimo fa, la potenza dell’astrazione sociale - ma nello stesso tempo indica la diversione pratico-ideologica e la distorsione dell’astrazione quand’essa acceda alla prospettiva formalistica. La logica linguistica riesce a dimostrare queste distorsioni non certo perché sia immune alle urgenze della pratica, quanto perché essa, nella sua storia, ha subito le tentazioni del misticismo della forma, e se ne è liberata, sentendone l’intera impotenza - ed avvertendo che l’ottimismo della volontà sta alla radice di quest’impotenza ed è estraneo e nemico al pensiero. Negli sviluppi postwittgensteiani della filosofia linguistica non assistiamo dunque ad una rifondazione del Logos, sulla cui crisi si instaurano egualmente il misticismo teoretico (pessimismo della ragione) e il volontarismo ascetico (ottimismo della volontà) - assistiamo bensì ad una dislocazione universale del pensiero e del sapere, del soggetto e della comunicazione, della ragione e della volontà. Nell’intrecciarsi con il significato il senso si fa potenza - e il mondo si avvia a riconquistare la vita (14).
Nel processo di autoastrazione della società il mondo si è fatto invece mondo etico, l’essere si è rivelato come essere etico - e comunicazione ed antagonismo si rivelano a loro volta come potenze orientate al fine di identificare, qualificare, svolgere le dimensioni collettive della riproduzione dell’essere. La logica contemporanea ci ha condotto su quello stesso bordo della determinazione etica che l’autoastrazione del sociale ha costituito. L’ottimismo della volontà tenta di combattere questo salto dell’essere, di negarlo non nella sua effettualità ma nel suo significato - di imbalsamarlo come tautologia, astrazione vuota, impotenza (15).
Tutte le condizioni a che l’orizzonte << avalutatività-decisionismo >>, << pessimismo della ragione-ottimismo della volontà >> sia distrutto e rovesciato, sembrano a questo punto date.
Ma questo volere è ontologicamente debole e in definitiva impotente. Può il criticismo rappresentare i processi di autoastrazione della realtà sociale? Se la variante sistemica del formalismo si chiude in una dichiarazione di impotenza e nell’incapacità di produrre innovazione, la variante criticistica è non meno bloccata: il limite fra prammatica soggettiva e orizzonte trascendentale ha le stimmate di tutti i cattivi infiniti del pensiero
Quando si trascorre dal terreno della riflessione epistemologica a quello della riflessione etico-politica, il dilemma è altrettanto insolubile, ed il pensiero risulta inabile a districarsi dal cattivo infinito, e lo spazio fra potere e comunità, fra legittimità e legittimazione è tanto confuso quanto indistinto. Il deficit del criticismo consiste nella fatica di fissare un rapporto sempre aperto alla ridefinizione dei referenti, delle polarità: un orizzonte trascendentale che tuttavia, quando assume consistenza, riduce i soggetti a pure utenze, - un orizzonte dei soggetti che quando si sostanzia in strategie adeguate, perde ogni punto di orientamento. Qui, allora, l’ottimismo della volontà (che non è voluto) è subito, è una costrizione cui il fallimento della mediazione induce. Ma non è questo il destino di ogni filosofia della mediazione? E che senso ha più porre il problema della mediazione a fronte dei dislocamenti che la realtà sociale ha determinato nel suo processo di autoastrazione? L’autoastrazione sociale comprende la mediazione, la subordina, la sostanzializza come caratteristica della crisi del valore umano di ogni sintesi sociale, come risultato dello sviluppo della ragione strumentale (18). A che pro reintrodurre la mediazione quando è dalla conclusione tragica dei suoi processi che l’ottimismo della volontà è stato costretto a dare irragionevole prova di sé? A che scopo accedere a questo depotenziamento ontologico, che il criticismo e il trascendentalismo dimostrano, quando la mediazione (nella finezza kantiana, nella forzatura hegeliana) ha mostrato l’incapacità di afferrare l’essere - e con ciò ha indotto irrazionalismo e crisi? (19). Il criticismo contemporaneo, ridotto sul limite del significato
Il funzionalismo soggettivo, le filosofie dell’interazione comunicativa non sono dunque altro che soluzioni oblique e contraddittorie rispetto ai problemi ed alla descrizione del mondo che il funzionalismo oggettivo, il sistemismo (nella grande svolta linguistica della filosofia contemporanea) ci consegnano, mistificandoli. Anche le filosofie dell’interazione comunicativa colgono brani di questa problematica - rivendicando il ruolo della soggettività. Ma che soggetto è questo che ci consegnano? Un soggetto che va ancora a cercare mediazioni critiche, trascendentali, indeterminate, indefinite... No! Di contro, il soggetto nasce già dentro un nuovo assoluto livello di autoastrazione della realtà. Non abbiamo bisogno dell’ottimismo della volontà - perché siamo finalmente a contatto di un nuovo orizzonte ontologico. |